venerdì 29 giugno 2012

Programma d'esame per la Terza Media

POSTATO dal prof d’italiano:

Anche se Caronte imperversa [che strano: tutto ritorna nella vita. L’abbiamo studiato pochi mesi fa ed ora ce lo troviamo come anticiclone!], possiamo (potete) cominciare a pensare all’anno scolastico prossimo.
Avete già un’idea di che cosa voglio che prepariate per l’esame orale, ma ora cercherò di essere più chiaro e concreto.
Per la vostra tranquillità emotiva, non è male partire da un argomento di vostro grandissimo interesse, purché abbia qualche attinenza con la scuola. Per dire, se a uno interessa solo girarsi i pollici, è un po’ difficile trovare dei collegamenti scolastici!
Per trovare un argomento che vada bene, dovete avere un’idea di ciò che farete a scuola l’anno prossimo e il modo migliore è quello di guardare con una certa attenzione l’indice dei libri che utilizzerete. Qui sorge il problema che questi libri ancora non li avete tutti, dunque al momento si può fare solo qualche ipotesi.
Ossia, vi posso presentare qualche esempio, tanto per orientarvi un po’.

1° esempio:
Alunno interessato particolarmente alla Prima guerra mondiale. Il programma potrebbe essere il seguente:
STORIA: la Prima guerra mondiale [l’argomento è enorme, quindi si può ridurre ad alcuni aspetti]
TECNICA: le armi usate nella Prima guerra mondiale
SCIENZE: gli effetti sul corpo umano derivanti dall’inalazione dei gas usati in guerra
ITALIANO: le poesie di Giuseppe Ungaretti scritte al fronte
MUSICA: i canti alpini della Grande Guerra
ARTE: uno o più dipinti sulla Grande Guerra [se io clicco su Google arte della prima guerra mondiale, mi compare per esempio un sito www.artegrandeguerra.net che sembra interessante]
GEOGRAFIA: uno degli Stati belligeranti, meglio se extra-europeo
INGLESE: uno o più testi di canzoni sulla guerra in lingua inglese [come per arte, una ricerca su google può dare buoni frutti]
SPAGNOLO: un testo in lingua spagnola sull’epidemia di influenza spagnola che imperversò in Europa dalla fine del 1918 al 1920 [beh, è quasi un gioco di parole, ma può funzionare]

2° esempio:
Alunno interessato a un brano presente nell’Antologia, intitolato “Ciaula scopre la luna”. Programma:
ITALIANO: Luigi Pirandello e il brano appena nominato
SCIENZE: la Luna
STORIA: i viaggi spaziali, dai primi tentativi allo sbarco sulla Luna
GEOGRAFIA: gli USA [dato che gli americani sono arrivati per primi sulla Luna]
TECNICA: come funziona un missile spaziale
INGLESE: il testo di una o più canzoni sulla Luna [ce ne sono tantissime]
SPAGNOLO: biografia in spagnolo del primo uomo arrivato sulla Luna
MUSICA: qualche canzone che parla di Luna [vedi inglese]
ARTE: il cinema di fantascienza ambientato sulla Luna, o anche un film serio sullo stesso argomento [per esempio “Uomini veri” di Philip Kaufman, o “Apollo 13” di Ron Howard – a proposito di film o di musiche: io ne possiedo molti e molte e in genere li presto a tutti i miei alunni, purché ritornino indietro sani e salvi]

3° esempio:
Alunno interessato a fumare [cosa sconveniente, ma succede, anche tra i migliori!]. Possibile programma:
SCIENZE: i danni all’organismo provocato dal fumo di sigarette e sigari
TECNOLOGIA: la fabbricazione di una sigaretta, in particolare dei sigari cubani
GEOGRAFIA: Cuba
STORIA: la rivoluzione cubana
SPAGNOLO: biografia in spagnolo di Fidel Castro
INGLESE: biografia in inglese di Ernesto Che Guevara
ARTE: pittura cubana o film su Cuba
MUSICA: la musica cubana, per esempio quella del film “Buena Vista Social Club”
ITALIANO: Ernest Hemingway e Cuba

Ecco, questi sono solo 3 esempi da cui prendere spunto. Pensateci: durante l’estate (anche senza pensare per forza di cose alla scuola) chiedetevi: Cosa mi piace veramente? Su che cosa vorrei approfondire le mie conoscenze?
A settembre ne riparliamo.

L'Europa in aereo

POSTATO dal prof d’italiano:

Se siete interessati ai voli aerei e al trasporto aereo (dovreste esserlo: l’argomento fa parte della Geografia umana), leggete questo articolo apparso su la Repubblica il 27 giugno 2012.
Come volano gli europei
 Di Ettore Livini
Aeropoli non è segnata su nessuna carta geografica. Eppure questa nazione in eterno movimento, con 7,6 milioni di abitanti (mai gli stessi), senza case o strade ha cambiato negli ultimi quarant'anni la mappa del cielo. Restringendolo, facendolo diventare più verde e affollato e - soprattutto - molto meno caro. A più di un secolo dal barcollante decollo del "Flyer", il leggendario trabiccolo alato dei fratelli Wright, il mondo ha imparato che si può vivere benissimo anche senza tenere troppo i piedi per terra. Nel 1971 l'ebbrezza del volo era un affare per pochi, solo 280 milioni di persone all'anno. Oggi l'industria dei cieli è una repubblica a se stante che ha decuplicato le sue dimensioni, dà lavoro a 20 milioni di persone e ha un Pil (600 miliardi di dollari) superiore a quello della Norvegia. Tra le nuvole è nata una megalopoli dell'aria con 2,8 miliardi di passeggeri l'anno - ogni giorno si imbarcano su un jet oltre 7,6 milioni di viaggiatori - capace di gemmare a suo supporto maxiaeroporti diventati ormai città nelle città: a Heathrow, lo scalo di Londra e al Charles De Gaulle, quello di Parigi (snodi dove transita il 25% del traffico europeo) passano ogni giorno 178mila persone. A Pechino 200mila. E se i calcoli della Iata (l'organizzazione delle aerolinee mondiali) sono giusti, Aeropoli continuerà a crescere a un ritmo triplo rispetto a quello dell' economia globale, arrivando nel 2050 a 45 milioni di abitanti e 16,6 miliardi di novelli Icaro trasportati ogni anno da una parte all'altra della terra passando per il cielo. Il motore di questa delicatissima macchina è un nucleo duro di mille compagnie aeree che negli ultimi decenni hanno stravolto e rivoltato come un calzino il loro modello di business. Moltiplicando i collegamenti, l' offerta, l'efficienza e (per fortuna) la sicurezza senza però riuscire ancora - purtroppo per loro - a tradurre questo ciclopico compito organizzativo in una pioggia di utili. A guidare le loro scelte sono due stelle polari: la globalizzazione - che li costringe ormai a rimodellare in tempo reale la ragnatela dei collegamenti - e la riduzione dei costi. Risultato: le rotte a lunga distanza sono garantite oggi da un "cerchio magico" di grandi vettori (le tre alleanze Skyteam, Oneworld e Star Alliance più le aerolinee emergenti del Golfo) che fa base - per ottimizzare le spese e i servizi - intorno a un baricentro di 26 città con oltre 10 milioni di abitanti. Il mondo, visto dall'alto, si è ristretto un po' attorno a questi hub (snodi). Le rotte dirette tra queste 26 destinazioni, che oggi rappresentano il 20% del traffico globale, si sono più che decuplicate dal 1971 mentre le tratte tra aeroporti minori (dove oggi dominano le low cost) sono solo raddoppiati. La mappa del cielo però si è allargata lo stesso. Fino a cinque anni fa, l'unico spicchio d'azzurro davvero intasato era quello sopra l' Atlantico, con il traffico tra Europa e America che costituiva il nucleo duro del business - anche in termini di redditività - per tutti i big. Oggi il mondo sta cambiando rapidamente, il futuro si sta spostando a sud e a oriente. Non a caso le tre compagnie mondiali più aggressive e redditizie sono oggi Emirates, Etihad e Gulf Air che grazie a una pioggia di petrodollari fanno la parte del leone sulla nuova via dell'oro dell'aviazione civile: il ponte che unisce il vecchio continente e gli Stati Uniti con i paesi emergenti del Far East. L'unica destinazione che Aeropoli Spa fatica ancora a raggiungere è la redditività. Negli ultimi quarant'anni le aerolinee sono riuscite a ridurre del 60% i loro costi operativi (personale, carburante e acquisto di nuovi jet), la vita media di un aereo è stata allungata a 20-30 anni, il suo utilizzo è passato da 6,5 a 10,7 ore al giorno, si riesce a riempirlo in media del 20% di passeggeri in più. Ma al momento di chiudere i bilanci, il risultato è stato quasi sempre lo stesso: utili uguale a zero. Per la precisione allo 0,1% del capitale investito, una miseria rispetto all' 8% delle imprese tradizionali. Un margine sottilissimo che ha mandato gambe all'aria in un paio di decenni oltre 300 compagnie. Aeropoli è uno dei pochissimi mondi dove - almeno finora - i consumatori hanno tenuto il coltello dalla parte del manico. La domanda, numeri alla mano, continua a crescere. Ma l'offerta resta elevata e la competizione ha costretto da sempre le aerolinee a girare al cliente finale tutti i (tantissimi) risparmi operativi realizzati negli ultimi decenni. Così volare costa sempre meno. Secondo la Iata, il prezzo dei biglietti è crollato del 60% rispetto al 1971. E questa tendenza ha accelerato la sua corsa nell'ultimo decennio quando il boom delle compagnie low cost ha rivoluzionato la mappa del sistema di collegamenti a medio raggio. Ormai siamo al paradosso che su molti voli, fino a 90 minuti di durata, il costo dell'aereo è inferiore a quello del taxi tra l'aeroporto d'arrivo e il centro della città. I soldi però non sono tutto nella vita. Conta anche la qualità. E non a caso le compagnie sono state costrette a triplicare le frequenze offerte sulle stesse rotte e a raddoppiare i collegamenti diretti da città a città, infittendo la ragnatela di voli che passano sopra la nostra testa. La buona notizia è che i tagli ai costi e l'aumento dei servizi non sono andati a scapito della sicurezza. Le vittime di incidenti aerei (in proporzione ai passeggeri) sono calate del 70% negli ultimi quarant'anni. E il volo è di gran lunga la forma di trasporto più sicura con un' incidenza di incidenti (per miglia e per 100milioni di passeggeri) pari allo 0,01% contro lo 0,04% di treno e bus e lo 0,78% dell'automobile. La vera rivoluzione invisibile degli ultimi quarant'anni nel mondo del volo è però quella ecologica. Un po' perché le compagnie (causa il boom del prezzo del carburante) sono state costrette a lavorare per ridurre al minimo i consumi che oggi rappresentano circa il 30% dei loro costi. Un po' perché la regolamentazione del trasporto aereo ha imposto limiti molto più restrittivi al rumore dei jet e alle emissioni di CO2. I progressi, carta canta, sono incredibili. L'ultima versione del Boeing 737 consuma - in proporzione ai passeggeri - il 48% in meno rispetto al primo modello decollato nel 1967. I costi di gestione del nuovo A320 sono pari alla metà della versione originale. Il Dreamliner B787, la gigantesca ammiraglia della società di Seattle costruita per il 30% in carbonio, permette di risparmiare il 25% sul pieno rispetto ai velivoli più tradizionali. Numeri importanti visto che gli aerei bruciano circa 300 milioni di tonnellate di kerosene l'anno - il 14% del totale utilizzato nel settore dei trasporti - e che ogni tonnellata di carburante si trasforma in 3,15 tonnellate di Co2. Passi da gigante sono stati fatti anche sul fronte dell'inquinamento acustico. Nel 1969 il rumore di un B707 era catalogato come "fastidioso" in un' area di 54,5 miglia quadrate rispetto alle turbine. Quello del B777 oggi è stato ridimensionato a 1 miglio quadrato. Il cielo sarà purè più trafficato di una volta, ma oggi di sicuro è molto più verde rispetto a quaranta anni fa.



Negazionismo

POSTATO dal prof d’italiano:

Anche se un po’ difficile, leggete questo articolo pubblicato su la Repubblica il 25 giugno 2012; tratta del negazionismo, ossia della tendenza sempre più diffusa a negare che nei campi di concentramento nazista sia veramente avvenuto l’Olocausto.
L’articolo mi ha fatto venire in mente il padre di una mia alunna di tanti anni fa, che mi attaccò per un anno intero perché avevo scelto come libro di narrativa “Se questo è un uomo” di Primo Levi (un libro che invito chiunque a leggere). Le motivazioni agli attacchi di questo papà (che, non so come, aveva anche una qualche cultura – era un dentista) andavano dal fatto che secondo lui il libro di Levi «non ha alcun valore letterario», alla perentoria affermazione che «i campi di concentramento non sono mai esistiti: tutte balle dei comunisti!» e, infine, alla constatazione che lui non ha mai conosciuto un ebreo (quando invece nella stessa classe di sua figlia c’era appunto una ragazza di religione ebraica). Mi piacerebbe fare nome e cognome di questo papà, tanto è il disgusto che mi provocava, ma è meglio comportarsi civilmente, anche con chi civile non è.


LA MALATTIA NEGAZIONISTA
Di Adriano Prosperi
L'attentato alla scuola ebraica di Tolosa del marzo scorso ha fatto seguito ad altri segni della sopravvivenza e del riaffiorare carsico di una maledizione antica. Come il bacillo della peste che minacciò di estinguere la popolazione europea nel 1348, l'anno della Peste Nera, quello dell' antisemitismo ha devastato l'Europa e il mondo nella nera notte di Auschwitz. Da allora sopravvive, indebolito ma ancora attivo. Ci si chiede se ci siano e quali siano le misure capaci di impedirlo. Fermo restando che il delitto consumato con la morte di innocenti dovrebbe - avrebbe dovuto - essere punito con tutta la severità delle leggi, resta aperta la questione se non si debba punire anche chi facendo professione di negazionismo vuole cancellare o stravolgere la memoria della Shoah. È un problema che investe la cultura civile, una domanda a cui sono state date risposte diverse. Ne parla una esperta di leggi e di storia, Daniela Bifulco, in una seria e sofferta indagine che ha il merito di scavare con attenzione su quello che accade nei territori confinanti del diritto, della politica e della ricerca storica: Negare l'evidenza. Diritto e storia di fronte alla "menzogna di Auschwitz" (Franco Angeli). La questione ha un'attualità indiscutibile, in un'Europa che sta scoprendo a sue spese quanto poco l'euro sia capace di tenerla insieme. Si è visto ai nostri giorni quali ombre si levino se la gretta attenzione ai conti di casa da parte di un cancelliere tedesco minaccia di cancellare la Grecia dalla costruzione europea. Joschka Fischer ha detto che per questa via la Germania riuscirà a spezzare l'Europa per la terza volta. E allora non sarà forse necessario rendere obbligatori per legge il rispetto dei morti e la memoria stessa colpendo come un reato la negazione della storia? Si eviterebbe così l'offesa estrema ai morti, il delitto con cui gli assassini della memoria (come li ha definiti Pierre Vidal-Naquet) tentano di portare a compimento il disegno nazista. Diversi paesi hanno introdotto norme penali specifiche in materia. Daniela Bifulco, nel proporne un esame ragionato, fa notare che l'Italia non è fra questi. E si chiede perché. Non ha una risposta certa, ma ritiene che non se ne sia discusso come si doveva: una constatazione innegabile. Di fatto, quando la questione è stata sollevata per episodi di negazionismo o indagando sul contesto dov'è maturato il disegno stragista di Gianluca Casseri, il ragioniere neonazista di Pistoia, la tesi che non si possa colpire un'opinione come un delitto ha avuto partita vinta forse fin troppo facilmente. Non che ne mancassero le ragioni: com'è stato fatto notare, una condanna penale oltre a essere difficilmente formulabile offrirebbe a chi ne venisse colpito un'occasione di pubblicità e un'aureola di martire della libertà d'opinione. Ma il nobile argomento della difesa della libertà non basta forse a spiegare le reazioni italiane. Daniela Bifulco fa notare tra l'altro l'urgenza sospetta con cui il defunto governo Berlusconi ha decretato nel 2010 la sospensione dell'efficacia delle sentenze che imponevano alla Germania il risarcimento dei danni per le stragi del 26 giugno 1944 a Civitella della Chiana: l'argomento allora usato fu che si dovevano evitare "tensioni nei rapporti internazionali". Qualcosa del genere era accaduto anche nell'immediato dopoguerra, quando si poteva e si doveva perseguire davvero i colpevoli. Ma stavolta ha pesato forse anche il timore che quella sentenza aprisse la strada a istanze risarcitorie contro l'Italia per la sua non piccola parte di responsabilità analoghe. Si discute su come si possa, in generale, chiudere i conti con il passato: un tema a cui Pier Paolo Portinaro ha dedicato di recente una dotta analisi. Ma non si possono confondere terreni diversi: da una parte ci sono conti che la politica e la giustizia devono saper chiudere: il che significa riconoscere i torti e risarcirli da parte degli Stati e condannare i responsabili se ancora in vita. Dall'altra c'è la ricerca storica come alimento della conoscenza e sostanza di una cultura civile. Oggi da noi il virus dell'antisemitismo non è certo debellato: lo tengono desto le iniezioni di razzismo quotidiano inoculato dal diffuso populismo xenofobo della destra e stimolato dalla realtà di violenza e di sfruttamento di masse di immigrati senza diritti. Ne affiorano spesso i segnali. Sarà dunque il caso di introdurre leggi antinegazionismo? Daniela Bifulco non dice questo. Anzi, mostra come la legislazione penale esistente in altri paesi sia per sua natura entrata in un percorso di distinzioni, estensioni e generalizzazioni, includendo la Shoah in una tipologia più ampia e relativizzandola: un risultato che il revisionismo ha invano inseguito. La cronaca recente della minacciata introduzione in Francia della definizione di genocidio per gli armeni con le connesse sanzioni per chi lo nega ha mostrato la deriva inerziale della tendenza a generalizzare e dunque a ridurre la Shoah a una delle tante pagine nere della storia, passata presente e futura. Forse questo è inevitabile. Anni fa Barbara Spinelli in un bel libro appassionato ( Il sonno della memoria) sottolineò i rischi del chiudere un evento per quanto immensamente mostruoso nella gabbia di una monumentalità sovrumana: la categoria del Male assoluto proietta l'ombra di una sacralità capace di incombere negativamente sulle menti malate. Ma, se la comparazione storica è da accogliere e praticare come strumento di conoscenza, bisogna invece opporsi alla relativizzazione come riduzione banalizzante della dimensione autentica dei fenomeni storici. La realtà di Auschwitz è una di quelle vette o di quegli abissi da cui si deve prendere la misura per guardare all'intero paesaggio. La ricerca storica sta ancora esplorando il dipanarsi dei percorsi che portano fino lì e che da lì si dipartono. Non con le pene della legge ma con l'investimento nella conoscenza e nella tutela delle memorie si può fare fronte al negazionismo. Esso ha come alleati l' ignoranza e la perdita di memoria e cresce nelle zone buie dell' intolleranza e del razzismo diffuso là dove i diritti umani sono disprezzati e offesi. L'Italia non ha certo le carte in regola a questo proposito. Nemmeno sul terreno del rapporto col suo recente passato. Il libro di Daniela Bifulco ha il merito di affrontare un tema non per caso piuttosto desueto in un paese - il nostro - incline a un distratto e superficiale perdono, abile nell'evitare domande inquietanti. Dopo la seconda guerra mondiale si è preferito immaginare gli italiani come vittime piuttosto che come carnefici: e l'intero paese ha preferito vedersi in veste di vincitore piuttosto che di vinto. Da noi il ricordo della legislazione razziale antisemita è appena baluginante. Mesi fa in una città universitaria italiana è stata posta una lapide in memoria di studenti e docenti allontanati nel 1938 perché ebrei: un rito distratto e tardivo, disertato dalla generalità del corpo accademico, rettore in testa. Lo stesso silenzio del 1938, quando gli illustri membri ecclesiastici e laici delle mille accademie italiane furono assai solerti nell'attestare l'assenza di macchie nella loro tradizione familiare tutta ariana e cattolica. Qualche monsignore poté svicolare dall'obbligo di rispondere grazie alla cittadinanza vaticana, come ha scoperto di recente Annalisa Capristo. Ma tutti gli altri si gloriarono dell' indefettibile loro arianità e di un cattolicesimo come immemoriale patrimonio di famiglia. L'unico a rispondere con lo sdegno che ci voleva fu Benedetto Croce. Troppo poco, davvero.

La copertina di "Negare l'evidenza" di Daniela Bifulco (Franco Angeli editore, pagg. 128, euro 17)

Un grande film

POSTATO dal prof d’italiano:

Consiglio questi 2 articoli (da la Repubblica del 24 giugno 2012) a tutti quelli che sono appassionati di cinema e di Storia del cinema. Se poi gli articoli vi stimolano, l’anno prossimo potete chiedere alla prof di storia di farvi vedere questo film (a scuola non ce l’abbiamo, ma io sì, anche se non nella versione appena restaurata; posso prestarlo).


La Grande illusione - Il film più odiato dal Potere
Di Claudia Morgoglione
A fine anni Trenta del Novecento la sua uscita provocò scandalo ovunque, lasciandosi dietro una scia di censure. Fu tagliato e guardato con sospetto in patria, in quella Francia che poco dopo si sarebbe consegnata ai tedeschi con la vergogna di Vichy. Fu odiato e bandito da Mussolini. Fu rubato dai nazisti e portato a Berlino, dove poi fu trafugato dai sovietici e nascosto a Mosca. Fu restituito a Parigi, come gesto di buona volontà, all'epoca della Guerra fredda, scambiato con un titolo della serie 007. Ma solo adesso, a ottantacinque anni dal debutto, La grande illusione - il capolavoro di Jean Renoir, padre di tutti i film a contenuto antimilitarista - sbarca in Italia nella versione "giusta": riportato al suo splendore autentico dal restauro, e col montaggio fedele al cento per cento all'originale. Un percorso e un destino travagliati, per una delle pellicole più amate e celebrate della storia del cinema: eversiva e scandalosa non per le frasi a effetto o le sequenze shock, ma per il pacifismo di cui è permeata. Intollerabile, nel Ventesimo secolo dominato dai totalitarismi, e in seguito dallo scontro ideologico tra Est e Ovest. E c'è dell' altro. Perché quel suo continuo passare di mano, quel suo nascondersi per riapparire sempre, quel viavai attraverso la Cortina di ferro, possono essere visti come una sfida. Come un messaggio di speranza che ha letteralmente attraversato l'Europa, e che nemmeno Hitler e Stalin sono riusciti a spegnere. È anche per questo che la visione dell'opera, tornata alla magia iniziale grazie al lavoro di cesello svolto dalla Cineteca di Bologna, suscita interesse: l'anteprima sarà mercoledì 27 al festival Il cinema ritrovato, in corso nel capoluogo emiliano. In attesa di una probabile, futura distribuzione nazionale. La prima e ultima volta nelle nostre sale uscì nel 1947: il via libera della censura porta la firma dell'allora segretario Giulio Andreotti. Ambientato durante la Prima guerra mondiale, La grande illusione - scritto da Renoir insieme a Charles Spaak, padre di Catherine - ha come protagonista un divo francese come Jean Gabin, affiancato da Pierre Fresnay e da Eric von Stroheim. È la storia di un capitano d'aviazione e di un luogotenente francesi che vengono fatti prigionieri e portati in una fortezza, dove ritrovano l'aristocratico, rigido e cavalleresco ufficiale tedesco che aveva fatto abbattere il loro apparecchio. Risultato: un affresco fortissimo contro la brutalità dei conflitti, un inno all'umanità e all'amicizia che si dimostrano più forti delle barriere sia sociali che nazionali. Presentata alla Mostra di Venezia del 1937, la pellicola vince il premio "per il miglior complesso artistico". Ma in quel cupo finale di decennio, segnato dall'avanzata inesorabile di Hitler, la censura è in agguato. Come conferma Gianluca Farinelli, il direttore della Cineteca di Bologna: «Già in Francia, al suo debutto nelle sale - racconta - l'opera esce tagliata: vengono espunti i riferimenti alle malattie veneree dei soldati. E comunque viene criticata per un presunto atteggiamento collaborazionista. In Germania invece vengono censurate le connotazioni positive di uno dei personaggi, l'ebreo Rosenthal. Mussolini non si pone proprio il problema: lo vieta direttamente, come Tempi moderni di Chaplin». Poco dopo scoppia la guerra, Parigi viene invasa dai nazisti. E l'unica copia originale e in ottimo stato della pellicola scompare misteriosamente dal laboratorio che la custodiva. «Qui non si è mai saputo cosa sia davvero successo - spiega Farinelli - ma certamente sono i tedeschi a portarla via: e non parliamo di un trasporto facile, tra immagini e sonoro sono una quarantina di casse con dentro le bobine. Che riappaiono - e questo lo sappiamo con sicurezza - a Berlino. Ed è un bene: quel laboratorio parigino viene bombardato, se fosse rimasta lì La grande illusione sarebbe stata distrutta». Intanto quelle casse così preziose, approdate nella capitale tedesca, ai tempi dell'occupazione vengono rubate dai sovietici e portate in un archivio a quaranta chilometri da Mosca. Prova evidente, chiosa Farinelli, «che entrambi i grandi tiranni, Hitler e Stalin, sono grandi cinefili». Nel 1958, ignaro di questi furti e convinto che l'originale sia stato distrutto dal bombardamento, Renoir fa uscire di nuovo in patria il suo capolavoro; utilizzando però delle copie non proprio perfette. Malgrado questi piccoli difetti, lo stile inarrivabile e il profondo umanesimo che lo pervadono influenzano tanti grandi cineasti: dallo Stanley Kubrick di Orizzonti di gloria (un vero e proprio omaggio) a Kurosawa, ai nostri Fellini a Sergio Leone. A metà degli anni Sessanta, però, la Cineteca di Tolosa scopre che il negativo è nascosto nella capitale russa. E così propone uno scambio geniale: la restituzione alla Francia in cambio di un James Bond con Sean Connery. Il film torna a casa, ma resta a languire negli archivi. Perché è solo adesso, grazie al lavoro di restauro voluto da Tolosa e da StudioCanal, e svolto dalla Cineteca di Bologna, che La grande illusione torna davvero allo splendore - e al montaggio - del 1937. In Francia, nel frattempo, è di nuovo uscito nei cinema a Natale 2011, ed è stato visto da trentamila spettatori: un risultato straordinario, per un film d'epoca in bianco e nero. A dimostrazione dell'eterna giovinezza di un'opera unica, sopravvissuta alle tempeste della Storia.



Ufficiali e gentiluomini
Di Jean Renoir
Le storie narrate nella Grande illusione sono rigorosamente vere e mi sono state raccontate da parecchi compagni d'armi della Grande guerra, e in particolare da Pinsard. Pinsard stava sui caccia, io sugli aerei da ricognizione. Mi capitava di dover fotografare le linee tedesche e lui mi ha salvato più di una volta la vita intervenendo tempestivamente contro i caccia tedeschi. È stato abbattuto sette volte, e le sue evasioni sono alla base di una delle storie della Grande illusione. In un cassetto ho ritrovato alcuni vecchi ricordi di quegli anni. Una foto mentre sto ai comandi del primo aereo che ho imparato a pilotare all'inizio del 1915, un Voisin. L'aereo su cui Gabin e Fresnay si fanno abbattere da Eric von Stroheim doveva assomigliarvi molto. Poi c'era il Nieuport, l'apparecchio degli assi dell'aviazione. È l'aereo che pilotava Pinsard. Se insisto sull'autenticità dei fatti raccontati nella Grande illusione è perché certe scene, soprattutto quelle che descrivono i rapporti fra francesi e tedeschi, viste con gli occhi di oggi possono destare un certo stupore. Non dimentichiamoci che nel 1914 non c'era Hitler. Non c'erano i nazisti che poi riusciranno a farci dimenticare quanto anche i tedeschi siano esseri umani. Nel 1914, lo spirito degli uomini non era stato ancora inquinato dalle religioni totalitarie e dal razzismo. In un certo senso, la Prima guerra mondiale era ancora una guerra di gente beneducata, oso dire una guerra di gentiluomini. Il che non la giustifica, d'accordo. Perché nulla giustifica il massacro. La grande illusione, insomma, non è solo una storia di aeroplani, per quanto appassionante. A farla diventare un buon film ci ha pensato la realtà delle cose narrate e la sceneggiatura nata grazie alla impagabile collaborazione con Charles Spaak a cui mi lega non solo una profonda amicizia ma anche la fede nell'uguaglianza e nella fratellanza tra gli uomini. Perché alla fine La grande illusione è storia di gente come noi lanciata in quella straziante avventura che è la guerra. E le domande che si pone oggi il nostro mondo angosciato somigliano molto a quelle che Spaak, io stesso e tanti altri ci ponevamo quando preparavamo questo film. E questa è la ragione per cui ci è parso che La grande illusione sia ridiventato di bruciante attualità. E per questo abbiamo deciso di ripresentarlo al pubblico. (Prologo del regista per la riedizione del 1958 della Grande illusione)




Il capitalismo secondo Walmart

POSTATO dal prof d’italiano:

Questo articolo, pubblicato domenica 24 giugno 2012 su la Repubblica, è molto utile per capire che cos’è il capitalismo (e per comprendere anche i suoi rapporti con la politica). Leggetelo, è molto interessante.


Walmart, le leggi del supermercato
Di Federico Rampini
NEW YORK - Il capitalismo contemporaneo, come lo conosciamo noi, ha una data di nascita: compie cinquant'anni. Quella data è il 2 luglio 1962, quando Sam Walton apre il suo primo supermercato al numero 719 della Walnut Avenue nella cittadina di Rogers, Arkansas. Lo battezza Walmart, un marchio destinato a trasformare la grande distribuzione e non solo quella. Il potere d'acquisto delle famiglie, la divisione internazionale del lavoro, i rapporti tra America e Cina, i diritti sindacali: non c'è settore della vita economica sul quale Walmart non eserciti la sua influenza. Per mezzo secolo la sua filosofia si è ridotta a un semplice slogan pubblicitario, "Always Low Prices, Always", sempre prezzi bassi, sempre. Con quell'avverbio ripetuto all'inizio e alla fine, lo slogan pubblicitario è banale ma ossessivo, martellante: proprio il metodo con cui Walmart ha perseguito quella promessa fino in fondo, con una coerenza spietata, sbaragliando concorrenti e stravolgendo antichi tessuti sociali. La destra lo celebra come un fulgido esempio dei benefici di massa del mercato, l'economista liberista Charles Krakoff ha suggerito che gli venga assegnato il premio Nobel per la pace. A sinistra, e in molte comunità locali, Walmart è il simbolo di un capitalismo disumano, distruttivo, che ha peggiorato le diseguaglianze. Fin dalle origini, la sua marcia è impressionante: nei primi cinque anni di vita conquista l'Arkansas, nel 1968 estende il suo raggio d'azione al Missouri e all'Oklahoma. Da quel momento l'espansione accelera, come un'armata d'invasori i supermercati Walmart avanzano occupando il territorio degli Stati Uniti, e via via molti paesi stranieri. Oggi sono 10.271 gigantesche superfici di grande distribuzione, che possono andare dai diecimila ai venticinquemila metri quadri ciascuna, in quindici paesi tra cui Cina e India. Con più di due milioni di dipendenti, Walmart è il più grande datore di lavoro privato del pianeta (lo superano l'esercito cinese e le ferrovie indiane). Da vent'anni a questa parte è la più grande azienda mondiale per fatturato, tra le società quotate in Borsa. A quota 450 miliardi di dollari, le sue entrate nel 2012 superano il Pil di 154 Stati nazione. Negli Stati Uniti l'onnipresenza di questi ipermercati è tale che ogni settimana cento milioni di americani vi fanno la spesa: è un terzo della popolazione nazionale, bambini inclusi. Nella gestione della logistica, dei trasporti e delle consegne, Walmart è una macchina da guerra con un'efficienza superiore al Pentagono. Lo dimostrò concretamente nel settembre 2005 dopo l'uragano Katrina: quando i soccorsi di Stato erano in ginocchio, Walmart fu il primo ad arrivare a New Orleans per spezzare il suo isolamento, con 1.500 camion di beni di prima necessità e centomila pasti gratuiti. Nazione nella nazione, Walmart è perfino autonoma dal punto di vista energetico, non ha bisogno di comprare corrente dagli Stati Uniti poiché possiede la sua compagnia elettrica, la Texas Retail Energy. Nei decenni della sua fulminea espansione, Walmart ha riscritto le regole del capitalismo a sua immagine e somiglianza, ha sconvolto rapporti di forze e gerarchie di potere, ha disegnato la nuova geografia della produzione mondiale. Come spiega l'economista Nelson Liechtenstein, della University of California Santa Barbara, «Walmart ha cancellato cent'anni di storia in cui la distribuzione era subalterna alla grande industria. Adesso la grande distribuzione sta al centro, ha il potere, mentre il settore manifatturiero è diventato un vassallo, completamente soggiogato». Una delle innovazioni su cui Walmart ha fondato il suo modello è la creazione di "marchi della casa": prodotti commissionati per la clientela Walmart, affidati a grandi imprese di beni di consumo, ma con il controllo assoluto del distributore su prezzo, qualità, confezione, marketing, pubblicità. Un esempio da manuale resta il lancio delle bibite Sam' s Choice, che in un solo biennio si conquistarono il terzo posto per le vendite in America dietro marche potenti come Coca e Pepsi. La dimostrazione estrema della centralità di Walmart nel capitalismo contemporaneo è il ruolo di avanguardia che ha svolto nella globalizzazione. Fin dai primi anni Novanta, il gruppo ha voluto che la Cina fosse al centro del suo sistema di acquisti. Oggi, sui seimila fornitori globali da cui Walmart compra i suoi prodotti, l' 80 per cento sono cinesi. «Walmart e la Cina sono i due soci di una grande joint-venture», osserva l'economista Gary Gereffi della Duke University. Con quasi trenta miliardi di dollari di prodotti made in China acquistati ogni anno per finire sugli scaffali di questi ipermercati, Charles Krakoff ironizza sul fatto che «non c'è un attivo commerciale della Cina verso gli Stati Uniti, bensì un attivo commerciale tra la Repubblica Popolare e Walmart». Questo colosso incarna anche il volto più distruttivo, e reazionario, del capitalismo americano. A cominciare dalla famiglia fondatrice,i sei fratelli e sorelle Walton che tuttora possiedono la maggioranza del capitale. Con oltre cento miliardi di patrimonio personale, la dinastia Walton ha più ricchezza del 30 per cento di tutta la popolazione americana meno abbiente. E c'è il sospetto che lo stesso gruppo Walmart con il suo impatto economico-sociale abbia contribuito attivamente a questa dilatazione delle diseguaglianze sociali. Non soltanto per il suo formidabile impulso verso le delocalizzazioni, che ha accelerato il declino dell'industria americana. Anche nel proprio mestiere, Walmart è un'azienda feroce. Uno studio fatto a Chicago dalla Loyola University ha dimostrato che entro diciotto mesi dall'apertura di un nuovo ipermercato Walmart, sono falliti 82 operatori della distribuzione sui trecento attivi nel vicinato. «Per due posti di lavoro che crea, ne distrugge tre», è il bilancio della ricerca. L'impatto è perfino peggiore se si guarda alla "qualità" del lavoro che crea. Il dipendente medio di Walmart riceve uno stipendio di 20.774 dollari lordi all'anno, che lo situa sotto la soglia della povertà ufficiale se è il capofamiglia di un nucleo medio di quattro persone. Walmart rifiuta ogni assistenza sanitaria al 56 per cento dei suoi dipendenti. Per i "privilegiati" ai quali offre qualche forma di polizza sanitaria, l'azienda impone un contributo di cinquemila dollari all'anno cioè un quarto dello stipendio lordo. Di fatto fa pagare allo Stato ciò che rifiuta di versare ai propri dipendenti: nel solo Massachusetts, per esempio, oltre cinquemila dipendenti dei suoi supermercati sono così poveri che finiscono per usufruire del Medicaid, l'assistenza sanitaria pubblica riservata agli indigenti (e pagata dal contribuente). Il sindacato non ha diritto di fare proselitismo e di reclutare iscritti all'interno di questi ipermercati. In cinque Stati Usa sono in corso processi in cui l'azienda è accusata di avere sistematicamente calpestato le leggi sul lavoro imponendo straordinari non retribuiti. Il New York Times ha pubblicato delle ispezioni interne in cui la stessa Walmart rileva numerosi casi di sfruttamento di manodopera minorile. Per la destra americana, nei confronti della quale la famiglia Walton è sempre generosa di finanziamenti, questo gruppo è un benefattore della società. I suoi sostenitori citano uno studio di Global Insight (pagato dalla stessa Walmart) secondo cui una famiglia del ceto medio-basso risparmia in media 2.500 dollari all'anno facendo la spesa in questi ipermercati. I consumatori sembrano essere d'accordo. Un sondaggio realizzato nel 2004 all'epoca della sfida presidenziale tra George Bush e John Kerry rivelò che il 76 per cento dei clienti di Walmart votavano per il repubblicano, una percentuale ben più alta della media nazionale. Numerose ricerche confermano che "la nazione Walmart" ha una base popolare nettamente orientata a destra. Non solo Walmart ha impresso un'influenza inaudita sul "modello di sviluppo" americano che è all' origine di questa crisi: è anche nei reparti di questi ipermercati che si plasma una visione del capitalismo, un'idea del mercato, un consenso liberista che a novembre può decidere il risultato dell'elezione presidenziale.


domenica 24 giugno 2012

Donne e scienza

POSTATO dal prof d’italiano:

Alle ragazze che non sanno quale scuola scegliere dopo la Terza Media, consiglio questo articolo pubblicato da la Repubblica il 22 giugno 2012. Ma anche ai ragazzi, ovvio!


La scienza delle donne / Se il laboratorio è femmina
Di Riccardo Luna
Ogni volta riscopriamo che ci mancano le donne. In politica. Alla guida delle aziende. Ora nella scienza. «Ci sono poche scienziate e poche ricercatrici», ha annunciato ieri la commissaria europea all'innovazione Marie Gheoghegan Quinn, irlandese, di professione insegnante, 62 anni da compiere. «Se ne avessi qualcuno di meno adesso farei la scienziata», ha poi scherzato lanciando la campagna "La scienza è un gioco da ragazze" mentre davanti al Parlamento europeo la deejay Sandrine Droubaix, nota come SubTanz, mandava musica house a palla e qualche centinaia di ragazzine si preparava a ballare per registrare il videoclip "Reazione a catena". Ebbene sì, il bersaglio dell' Unione Europea per ora sono le adolescenti, come dimostra il video ufficiale, subito stroncato in Rete, dove si vedono tre giovani che ancheggiano come le poliziotte della serie tv "Charlie's Angels", ed entrano in un laboratorio armate di rossetto sconvolgendo la vita (e gli stereotipi) dei maschi. «Vorremmo che la scienza diventasse sexy», ha cercato di spiegare la Gheoghegan Quinn, ma in questo caso "sexy" non ha un significato sessuale: vuol dire non noiosa, non polverosa, "qualcosa di figo da fare" anche per chi non è un uomo in camice bianco. Cadute di stile a parte, la campagna punta a risolvere un problema serio che sta pregiudicando il nostro futuro: per crescere e restare competitiva, per esempio rispetto alla Cina, all' Europa servono un milione di ricercatori in più entro il 2020 e se le donne non decideranno di darsi finalmente alla scienza quell' obiettivo è impossibile da raggiungere. I numeri sono chiari. I tempi in cui all'irlandese Annie Maunder venne rifiutata la laurea in matematica a Cambridge perché due secoli fa quei i diplomi potevano prenderli solo gli uomini, sono finiti. Da vent'anni ormai in Europa la maggioranza dei laureati sono donne. Quel numero però cala progressivamente quando si passa ai master e ai dottorati di ricerca. Ma soprattutto le donne sono in netta minoranza quando si parla di lauree in scienze, matematica e informatica (40%) e diventano appena una su quattro in ingegneria e architettura. Non sorprende quindi che tra i ricercatori europei solo una su tre sia donna e questo, secondo tutti, è uno spreco di talento che non possiamo più permetterci. La cause sono diverse, alcune anche molto semplici: Margherita Hack, che alcuni anni fa è stata la prima donna a dirigere un osservatorio astronomico, ricorda sempre che uno dei fattori che le ha reso possibile la carriera scientifica è stato il fatto di essere cresciuta in una famiglia «in cui babbo e mamma erano perfettamente eguali, e si dividevano i compiti domestici in piena parità». C'è quindi una questione di stato sociale e magari anche di asili nido che ostacola la carriera scientifica delle donne. Ma la commissaria europea punta piuttosto a scardinare gli stereotipi per cui certi percorsi professionali sarebbero adatti ai maschi ed altri alle femmine: «Quando pensate a un ingegnere meccanico pensate a un uomo o a una donna? E un meteorologo o un geologo in camice bianco lo immaginate uomo o donna? E un infermiere o un insegnante delle elementari? Se avete risposto "uomo" alle prime due domande e "donna" alla terza, abbiamo un problema da risolvere subito». La soluzione, secondo la campagna appena lanciata, sono le storie delle donne che fanno scienza oggi: ne sono state scelte cinque, cinque " role models" da raccontare ai ragazzi fra i 13 e i 17 anni, in quell'età in cui femmine e maschi manifestano la stessa predisposizione e la stessa bravura verso la scienza e la matematica (lo dicono i test di PISA). Una delle cinque ambasciatrici europee è l'italiana Ilaria Capua, 46 anni, veterinaria e virologa dell'Istituto Zooprofilattico delle Venezie di Padova, diventata una star nel 2007 perché decise di mettere in una banca dati pubblica e aperta il virus dell' aviaria che il suo laboratorio aveva isolato per primo. Innescò una rivoluzione culminata in una risoluzione dell'Organizzazione mondiale della sanità a favore delle trasparenza e della condivisione dei dati delle ricerche. È una che ce l'ha fatta, quindi. Eppure anche secondo la Capua «nella scienza c'è un soffitto di cristallo che impedisce alle donne di emergere. Ma non basta cambiare il sistema, devono cambiare anche le donne. Devono cominciare a credere di potercela fare. Serve una voglia matta per superare salite durissime e le sberle tremende che prenderanno. Ma vale la pena. È un lavoro entusiasmante. Fare scienza oggi vuol dire essere i motori del cambiamento del mondo». La campagna farà il giro di sei stati europei entro la fine dell'anno: un camion attrezzato con un laboratorio farà tappa in Austria, Belgio, Germania, Polonia, Olanda e Italia (Roma e Milano). Nel 2013 toccherà agli altri stati membri in modo da giustificare un forte aumento di investimenti in innovazione e ricerca nel settennato 2014-2020 (da 55 ad 80 miliardi di euro, il programma si chiama Orizzonte 2020). Peccato per quel video di lancio così sbagliato. Su Facebook ieri è stato demolito. Eppure la pagina social della campagna " Science: it' s a girl thing" è fatta bene: c' è una timeline, una storia del fenomeno, che parte da Ipazia, la filosofa, astronoma e matematica ellenica che venne uccisa diventando martire della scienza nel 415 dopo Cristo, e prosegue passando per il Nobel Rita Levi Montalcini del 1986 fino alla belga Ingrid Daubechies, prima donna ad essere eletta alla guida dell' Unione Internazionale dei Matematici nel 2010. «Rossetto e tacchi a spillo? Non è per questo che ho studiato scienza», ha aperto il fuoco di fila una certa Wiebke Herding proprio mentre la commissaria lo presentava alla stampa con queste parole: «Ho iniziato la mia carriera come insegnante di scuola, e so quanto sia importante comunicare con i giovani, catturare il loro interesse, aiutarli a sviluppare una passione per la scienza. Questo video fa sembrare la scienza così attraente che se potessi tornare indietro farei la scienziata per ripercorrere le orme di due scienziate che poi si sono date alla politica, come l'astronauta francese Claudie Haigneré e la chimica Angela Merkel». In realtà se potesse tornare indietro, forse la commissaria adesso dovrebbe fare in fretta un altro video.


Biciclette in Cina

POSTATO dal prof d’italiano:

In vista della Geografia che studierete in Terza, leggete questo articolo apparso su la Repubblica il 21 giugno 2012. [Dedicato in particolare a chi ha il papà che lavora in Cina]


Contrordine compagni, c'è lo smog
"Cinesi, ora tornate alla bicicletta"
Di Giampaolo Visetti


I cinesi, per non soffocare nel traffico, risalgono in sella. Ai tempi di Mao erano l'icona mondiale della massa a pedali. Su una bicicletta saliva tutta la famiglia e ogni compagno rosso era tenuto a possedere solo due tesori: la tessera del partito e le due ruote.
Pechino, negli anni Cinquanta, stabilì un imbattibile primato: circolavano più biciclette che abitanti. Negli ultimi vent'anni, con il boom economico, l'addio ai cicli e la conversione all'automobile. Ed ancora un record. La Cina si è trasformata nel primo mercato auto del pianeta: oltre un milione di vetture vendute ogni mese, domanda superiore all'offerta, multinazionali dei motori in fuga verso l'Oriente e lotterie in diretta tivù per l'assegnazione delle targhe. Una motorizzazione senza precedenti, incentivata dalle autorità impegnate nella più colossale migrazione interna della storia.
Anche la "metropolizzazione" di Stato però, con cinque città-mostro di oltre 90 milioni di abitanti entro il 2020, mostra la corda. Aria definita «inadatta alla vita umana», guerra sui dati dello smog, ingorghi lunghi centinaia di chilometri e insolubili per mesi, mercati alimentari ambulanti di servizio ai pendolari in colonna. L'allarme suona così pure nei sondaggi pilotati dalla propaganda: per la nuova classe media della Cina, più numerosa della popolazione europea, traffico e inquinamento sono il primo problema, dopo la corruzione dei funzionari. Dunque, contrordine compagni: anche il Dragone si tinge di verde, ferma le auto e riscopre le care, vecchie e gloriose biciclette.
Il ritorno al futuro delle due ruote cinesi ancora una volta parte da Pechino. Il governo ha appena inaugurato i primi 63 punti-noleggio dotati di 2 mila biciclette nei quartieri centrali di Chaoyang e di Dongcheng. Altri 140 affitti pubblici, con 48 mezzi, sono stati sparsi nel resto della capitale. Entro il 2015 si arriverà a 150 mila cicli di Stato distribuiti in 1000 punti della città e serviti dalla più estesa rete di piste ciclabili del mondo. Per la seconda economia globale è una svolta: automobili a numero chiuso, targhe alterne e biciclette gratis omaggiate dal partito. Se fino a ieri salire in macchina era la cifra del successo nazionale, oggi diventa snob parcheggiare la berlina tedesca sotto casa e pedalare fino all'ufficio protetti dalla mascherina anti-piombo. Prima ora di sella in regalo, le successive a prezzi popolari: dieci centesimi all'ora, per un massimo di un euro a giornata. Un solo dovere: esibire un documento, o il permesso di soggiorno, e restituire la bicicletta in uno dei centri aperti dal governo. Frenare l'invasione dei volanti e convincere i cinesi a reimbracciare il manubrio, è del resto una drammatica necessità.
In dieci anni la superficie occupata dalle quattro ruote in Cina è cresciuta 680 volte più rapidamente di quella coperta dalle strade. A Pechino e a Shanghai i tempi di percorrenza dello stesso tragitto, nelle ore di punta, si sono allungati fino a 12 volte: per un percorso da dieci minuti occorrono due ore. Il risultato, secondo l'allarme dell'Accademia delle scienze, è il 52% dei cinesi, ormai urbanizzati, sull'orlo di una crisi di nervi e sempre più contrari ai privilegi di leader e funzionari. La riscossa delle biciclette pubbliche, dalla capitale, dilaga così nelle principali città e nei distretti industriali, dove i colossi di Stato cominciano a offrire agli operai l'abbonamento alla metropolitana e una bici di servizio al posto dell'aumento in busta paga. Resta, insuperabile, il problema dei numeri: montagne di automobili che invadono ogni spazio, cancellano le piste ciclabili e causano la più alta concentrazione di incidenti mortali nei Paesi in via di sviluppo. «Prima delle Olimpiadi del 2008 - dice Bay Xiuying, gestore del più grande noleggio bici di Pechino- il governo varò il primo piano di riciclizzazione popolare. In pochi mesi sparirono 60 mila biciclette e gli incentivi economici si riorientarono sulle quattro ruote.
Oggi tutto è cambiato: se non si ferma lo smog e non si rimette la gente in movimento, l'urbanizzazione della Cina fallisce. I pedali diventano l'assicurazione sulla vita del potere».
Non l'unica però. Il sogno proibito dei metropolitani è sì la bici, ma elettrica: in quattro anni si è passati da 90 a 160 milioni di cicli a motore, 200 milioni entro il 2015, più 35% all'anno. È l'esercito dei nuovi eco-cinesi a rischio-infarto, terrorizzati da smog e sovrappeso, ma obbligati alla puntualità sul lavoro. Salute e denaro: i «principi rossi» eredi di Mao spingono il popolo in sella, ma scoprono che non pedala più. Nemmeno una nostalgia a emissioni zero può salvare Pechino dal virus di un autoritarismo capitalista di successo.

L'inventore della plastica pulita

POSTATO dal prof d’italiano:

A chi è interessato all’ecologia, alle nuove scoperte e all’orgoglio patriottico consiglio questo articolo, pubblicato su la Repubblica il 20 giugno 2012.


L' inventore della plastica pulita
Di Riccardo Luna
«La cosa più buffa di questa storia è che io non sono uno scienziato e nemmeno un laureato in chimica. Sono soltanto un grafico pubblicitario che un giorno si è detto che doveva esserci un altro modo per fare la plastica. Un modo che non inquinasse il pianeta per migliaia di anni. Allora sono andato su Internet a cercare fino a quando quel modo l'ho trovato». Questa è la storia di una rivoluzione fatta in casa, scoperta per caso e destinata forse a cambiare le cose. Gli oggetti della nostra vita. L'artefice si chiama Marco Astorri, ha 43 anni, tre figli, una pettinatura che lo fa assomigliare al protagonista muto di The Artist e un'azienda che sta facendo discutere il mondo: la BioOn sta a Minerbio, a 40 minuti da Bologna. Da qualche mese ogni settimana c'è una processione infinita verso questo misterioso laboratorio in mezzo ai campi: bussano i capi delle grandi multinazionali della chimica, ma anche i produttori di telefonini, personal computer e televisori, componenti per le automobili. Insomma tutti quelli che fanno prodotti usando la vecchia plastica. Vengono, ascoltano, guardano le ampolle piene di misture dolciastre, i fermentatori di metallo riflettente. Poi spalancano gli occhi e la domanda che si fanno è: possibile che questo scienziato-fai-da-te, questo hacker con la scatola del piccolo chimico sotto il braccio abbia trovato la formula magica per farci vivere davvero "senza petrolio" (il petrolio, com'è noto, è la base di tutte le plastiche e l'origine dei problemi a smaltirle dato il suo tasso terribilmente inquinante, vedi la diossina)?
Ebbene sì, è possibile, perché è esattamente quello che sta accadendo. La storia inizia nel 2006. E inizia naturalmente con un pezzetto di plastica. Anzi con migliaia di pezzetti di plastica. Sono gli skypass che gli sciatori lasciano distrattamente in mezzo alle neve a fine giornata. Solo che poi in primavera la neve si scioglie, gli skypass no: quei pezzetti di plastica restano a inquinare l'ambiente per una vita, anzi per migliaia di anni. Marco Astorri e il suo socio francese Guy Cicognani di quegli skypass sono in un certo senso colpevoli, visto che li producono. Per la precisione, realizzano le micro-antennine che aprono i tornelli (Rfid). Ed è facendo questo lavoro che iniziano a chiedersi se non ci sia un modo per fare una plastica totalmente biodegradabile. Una plastica che si sciolga in acqua. Come la neve, appunto. Astorri e Cicognani non sono i primi a pensarlo ovviamente. Proprio in Italia Catia Bastioli, dal 1990 e negli stabilimenti della Novamont a Terni, ha iniziato a produrre la MaterBi, plastica a base di amido di mais. Ha avuto un notevole successo, al punto che alle prossime Olimpiadi di Londra i piatti, i bicchieri e le posate, in tutto alcune decine di milioni di pezzi, saranno di bioplastica italiana. Un grande orgoglio nazionale di cui andare fieri. Il mais però è un alimento: usarlo per fare la plastica vuol dire farne salire il prezzo e si è visto con i biocarburanti di prima generazione come questo possa essere problematico. Inoltre, per quanto riguarda la biodegradabilità, la provincia di Bolzano ha fatto presente che i sacchetti che dal 1° gennaio la legge ci impone di usare al supermercato creano inciampi agli impianti di compostaggio dei rifiuti. Insomma, forse si può fare meglio. Ma torniamo al 2006. Ricorda Astorri: «Abbiamo chiuso con gli skypass. Ci siamo comprati un computer, un iMac, l'abbiamo collegato alla Rete e abbiamo iniziato a cercare qualcosa di nuovo». La caccia al tesoro dura poco e finisce in un' università in mezzo all'Oceano Pacifico dove un gruppo di ricercatori sta sperimentando un modo per produrre la plastica con gli scarti della lavorazione delle zucchero: il melasso, sostanza che oggi ha un costo per essere smaltito ma può diventare invece la materia prima per una plastica davvero bio. Astorri e Cicognani intuiscono che quella pista è quella buona, prendono un aereo, investono la metà dei loro risparmi per comprare quel brevetto (250mila dollari), ne aggiungono una serie di altri sparsi nel mondo e in un anno sono pronti a realizzare la molecola descritta dal biologo francese Maurice Lemoigne nel lontanissimo 1926: il PHA. Di che si tratta? A sentire la spiegazione del capo del laboratorio, Simone Begotti, un quarantenne che per anni si è occupato di fermentazione in aziende biofarmaceutiche, la ricetta è un segreto di Stato ma il procedimento non è complesso: «Si tratta di affamare e poi far ingrassare dei batteri. In poche ore quel grasso diventa la polvere con cui facciamo la plastica». Perché ci sono voluti più di 80 anni per ripartire da lì? «Perché in quei tempi ci fu il boom del petrolio: fare plastica in quel modo era facile ed economico, i costi per l'ambiente non venivano tenuti in considerazione», sostiene Astorri. Nel 2007 il nuovo polimero viene battezzato Minerv, in omaggio al posto dove sorge il laboratorio ma anche a Minerva, dea romana della guerra e della saggezza «visto che sarebbe saggio fare questa guerra in nome dell'ambiente». Un anno dopo arriva la certificazione internazionale: «Il Minerv è biodegradabile in terra, acqua dolce e acqua di mare», attestano a Bruxelles. Astorri lo spiega così: «In 10 giorni i granuli di MinervPHA si dissolvono in acqua senza alcun residuo». Miracolo. Si decide così di fare una startup anche qui cambiando le regole: niente soldi pubblici e soprattutto niente soldi dalla banche: «Abbiamo fatto un patto con i contadini», racconta Astorri. L'accordo è con la cooperativa agricola emiliana CoProB che produce il 50 per cento dello zucchero italiano. Oltre a tantissimo melasso. Saranno loro, i contadini emiliani, i titolari del primo impianto BioOn che aprirà a fine anno: «È la fabbrica a chilometro zero. Sorge dove stanno le materie prime», spiega Astorri che con l'aiuto del colosso degli impianti industriali Techint, punta a replicare il meccanismo in tutto il mondo: la fabbrica in licenza. Un paio di impianti, a forma di batterio, disegno dell'architetto bolognese Enrico Iascone, apriranno in Europa, uno negli Stati Uniti. La svolta è arrivata un anno fa quando in laboratorio il mago Begotti è riuscito per la prima volta a realizzare un PHA con proprietà molto simile al policarbonato. Non la classica plastica dei sacchetti della spesa, quindi, ma la plastica dura e malleabile di cui sono fatti tanti oggetti della nostra vita quotidiana. Il primo a crederci è stato il presidente di Floss che ha voluto replicare una celebre lampada del design italiano firmata Philippe Starck, Miss Sissi. Presentazione solenne lo scorso 18 aprile al Salone del Mobile, poi un'escalation continua: secondo Astorri tra un anno il MinervPHA sarà negli occhiali da sole italiani, nei computer californiani, nei televisori coreani e persino nelle confezioni di merendine per bambini. «Tutti mi dicono che sono seduto su una montagna d'oro ma non è così che mi sento. Mi sento su una scala di cui non si vede la fine». L'inizio in compenso si vede benissimo. Era il 1954 e a pochi chilometri da Minerbio, Ferrara, negli stabilimenti della Montecatini, un grande chimico italiano scopriva la regina delle plastiche, il polipropilene isotattico, noto come il Moplen nelle reclame dell' epoca con Gino Bramieri. Il 12 dicembre 1963 Giulio Natta e il chimico tedesco Karl Ziegler ricevevano il premio Nobel. Nella motivazione si legge: «Le conseguenza scientifiche e tecniche della scoperta sono immense e ancora non possono essere valutate pienamente». Sarebbe la seconda volta che un italiano reinventa la plastica.

venerdì 15 giugno 2012

La morte di Ray Bradbury

POSTATO dal prof d’italiano:
Un po’ in ritardo pubblico questo articolo, apparso su la Repubblica il 7 giugno 2012. Chissà, magari a qualcuno viene voglia di leggere i suoi libri, che sono molto diversi da quello, del tutto particolare, che vi avevo consigliato per le vacanze dell’anno scorso e che si intitola “L’estate incantata” [Tra parentesi, magari ora che il suo autore non c’è più, qualcuno avrà voglia di ristamparlo!]


Ray BRADBURY
Il maestro di "Fahrenheit 451" che fece della fantascienza un’arte
Di Siegmund Ginzberg
Ray Bradbury ha scritto ininterrottamente per 71 dei suoi 91 anni di vita. Almeno una storia alla settimana da quando aveva iniziato, dice il suo biografo Sam Weller. Il che farebbero oltre 3600 opere. Lavorava come al cottimo, si era imposto una quota fissa di tot righe al giorno. Poteva fare il giornalista. Gli piaceva definirsi uno "sprinter", piuttosto che un "maratoneta" della scrittura. Era autodidatta, suo padre, un operaio elettrico disoccupato durante la Grande depressione, non poteva permettersi di mandarlo al college. Eppure è considerato uno degli autori di fantascienza (lui preferiva definirsi scrittore di fantasy) più "letterari" d'America. Qualcuno l'avrebbe definito "il poeta del pulp".
È morto ieri, in California e anche Obama ha voluto ricordarlo: «Ha capito che la nostra immaginazione può essere usata come strumento per una migliore comprensione e come mezzo per cambiare le cose».
Scriveva del mondo, anzi dell'universo, anticipava futuri lontani trasportandovi i temi della "small-town" dell'America della sua infanzia. L'ultimo scritto, pubblicato sul numero speciale del New Yorker dedicato al ritorno della fantascienza è anch'esso autobiografico. Racconta di come aveva iniziato a divorare libri e racconti a otto anni, dei discorsi che origliava agli adulti, della scoperta del mondo con i nonni. Era un'America in crisi, ma anche con grandi aspettative per il futuro. Alla depressione sarebbe seguito il New Deal di Roosevelt. Poi aveva continuato a rinchiudersi nella biblioteca locale tre giorni alla settimana, per i successivi dieci anni.
Trasferitosi con la famiglia a Los Angeles nel 1934 aveva scoperto il cinema, andava a vedere anche una decina di film a settimana.
Fahrenheit 451, pubblicato nel 1953, è uno dei suoi romanzi più noti anche perché poi François Truffaut nel 1966 ne fece un film. Anticipa gli incubi di un'era dominata dalla televisione, dai megaschermi al plasma e persino di gadget portatili, antenati dei cellulari di oggi. Ha una magia profetica superiore al 1984 di Orwell che in fin dei conti parlava dei totalitarismi del suo tempo, Stalin e Hitler, non di qualcosa ancora lontano a venire. Non si tratta però di essere profeti.
Non c'era, è vero, verso che già allora potesse immaginare il nostro mondo. Ma gli bastava osservare bene il suo. Parla con angoscia di roghi di libri.
Aveva memoria fresca dei libri bruciati dai nazisti, sentiva analoga puzza di bruciato nella sua America degli eccessi maccartisti. L'aveva scritto tra gli scaffali di una biblioteca di Los Angeles, su macchine da scrivere a gettone, una monetina da dieci centesimi per ogni mezz'ora d'uso. L'altro suo grande successo, Cronache marziane,è una raccolta di storie ambientate sul pianeta rosso. Ma i comportamenti di suoi marziani richiamano quelli dell'America profonda dove viveva. Il suo Marte è uno specchio della Terra. Sullo sfondo c'è la gara all'armamento nucleare, ma anche la vita di tutti i giorni. Nell'ultima delle storie i colonizzatori umani di Marte, assistono impotenti alla guerra nucleare che distrugge il loro pianeta d'origine e si apprestano a ricostruire su Marte, spopolato da un'epidemia di morbillo che ha sterminato i marziani, una società più giusta. L'ironia sulla pretesa di ricostruire sul deserto, sia pure il più "giusto" dei sistemi, e sulle origini genocide della sua stessa amata America costruita sulle ossa degli pellerossa è lampante.
Curioso per uno che in realtà non aveva mai gradito molto dover viaggiare. Non mise mai piede su un aeroplano fino all'età di 62 anni. Non ha mai avuto la patente di guida. Non si lasciava incantare dai progressi della tecnologia e dei consumi. Resta famosa una sua sfuriata contro internet a metà anni '90: «Internet è solo una grande distrazione».
Quando Yahoo glie lo chiese, rifiutò di pubblicare in rete: «Andate al diavolo voi e il vostro internet! Distrae a basta!».
In uno dei suoi racconti c'è anche una geremiade quasi biblica contro i videogiochi. Eppure dai suoi scritti sono stati tratti non solo libri, film, opere teatrali, serie televisive, sceneggiature (è sua anche quella del Moby Dick di Houston), ma anche un parco divertimenti e videogiochi. Scrisse non solo fantascienza ma anche racconti polizieschi, di fantasy, di horror (c'è chi dice che senza di lui non ci sarebbe stato Stephen King), e anche di cosiddetta "atmosfera", persino una storia d'amore. Non era uno "scienziato" come Asimov, e neppure un "apocalittico" come Dick. Vedeva il mondo, s'è detto, sempre con gli occhi di un bambino, il bambino cresciuto in Illinois, con le sue speranze ma anche le sue paure infantili.
Anche il primo della raccolta che viene considerata dai suoi fan come la più riuscita, Dandelion Wine (1957), intitolato La notte, inizia con: «Sei un bambino, in una piccola città...». Ma ormai sappiamo che gli occhi dei bambini vedono anche cose che gli adulti non riescono a percepire. Memorabile il modo in cui una volta apostrofò un bambino che esitava ad entrare in un negozio di giocattoli: «Crescere? Ma cosa significa? Te lo dico io: non significa nulla». Chi ha visitato la sua casa a Los Angeles ricorda un immenso cumulo di peluches, animali impagliati, giocattoli di legno, Dvd, videocassette e libri. «Il mio scopo è divertirmi e divertire gli altri», ha continuato a dire sino all'ultimo. «Grazie, ci hai divertito aprendoci gli occhi», vorremmo rispondergli.