domenica 27 maggio 2012

domenica 20 maggio 2012

Il Golden Gate Bridge di San Francisco

POSTATO dal prof d’italiano:

In preparazione alla geografia e alla storia dell’anno prossimo, potete leggere questo articolo (pubblicato da la Repubblica il 13 maggio 2012) su uno dei simboli più noti degli Stati Uniti d’America.
Un ponte contro la Depressione - l'America celebra il Golden Gate
di Federico Rampini

SAN FRANCISCO - La Frommer's Guide lo definisce «il ponte più fotografato del mondo». Di certo è il più amato dal cinema, appare in decine di cult-movie che vanno da Hitchock ("La donna che visse due volte") a "Il laureato", "Superman", "Basic Instinct" e l'ultimo "Pianeta delle scimmie". Ha il record tragico dei suicidi: oltre 1.300, uno ogni due settimane. Arrivato a 75 anni il Golden Gate bridge si riscopre la vocazione del simbolo politico.
Icona di una battaglia ideologica attualissima. È la più magnifica delle grandi opere infrastrutturali con cui il New Deal di Franklin Delano Roosevelt volle combattere la Depressione degli anni Trenta. Oggi la rete tv più "obamiana", la Msnbc, in una campagna di pubblicità-progresso invoca «il ritorno allo spirito di quell'America, che aveva grandi sogni e grandi progetti collettivi, per il bene comune». Il premio Nobel dell'economia Paul Krugman nel suo nuovo libro ("Fuori da questa crisi, adesso" che uscirà da Garzanti a fine mese) indica come combattere la disoccupazione: rilanciando subito gli investimenti in opere pubbliche. È il modello Golden Gate, contro Mitt Romney e la destra che hanno il progetto opposto: continuare il cantiere neoconservatore di smantellamento di ogni intervento pubblico. Keynes contro Von Hayek, la spesa pubblica anti-recessiva contro il liberismo neoclassico: lo scontro tra le due visioni del mondo viene messo in scena in quest'angolo meraviglioso della baia di San Francisco, la porta dell'oceano Pacifico.
Non è un caso se la città più progressista d'America, quella che ama definirsi capitale della Left Coast (la costa "di sinistra", anziché "occidentale"), lavora da mesi per organizzare una grande festa popolare il 27 maggio, giorno del 75esimo compleanno. Gli organizzatori si attendono un tale afflusso di massa che quella domenica dovranno chiudere il ponte ai pedoni: rischia di arrivare un milione di persone e la struttura non reggerebbe il peso.
La storia di questa icona è un pezzo di biografia della nazione americana. Ed è ricca di sorprese.
Il ponte era bianco quando lo attraversò Dustin Hoffman al volante dell'Alfa Duetto ne "Il laureato": il colore rosso è uno strato di antiruggine applicato durante un lavoro di manutenzione, piacque tanto da diventare definitivo.
La costruzione del Golden Gate era "nei cassetti" dell'amministrazione pubblica prima ancora che Roosevelt s'insediasse alla Casa Bianca. Rischiava di rimanere nel libro dei sogni, a causa del crac del 1929 che aveva depauperato il paese. Fu merito del banchiere italo-americano Amedeo Giannini (fondatore della Bank of America) se nel 1932 si riuscirono a collocare i primi bond per il suo finanziamento. E di altri italo-americani è costellata la sua storia. L'operaio Jack Balestreri presente all'apertura del cantiere il 5 gennaio 1933, è stato l'ultimo a sopravvivere, fino al mese scorso. Il sindaco di San Francisco che tagliò il nastro all'inaugurazione il 27 maggio 1937 era Angelo Rossi. A quell'epoca con i suoi 2,7 km di lunghezza e 227 metri d'altezza era il più grande ponte sospeso del mondo. L'American Society of Civil Engineering continua a considerarlo «una delle otto meraviglie del mondo moderno». Se non fu Roosevelt a "inventarlo", ne fece però una potente rappresentazione dell'era che si apriva con la sua presidenza. La fine del laissez-faire [letteralmente “lasciate fare”; è una massima adottata dai liberisti del XVIII secolo, per indicare che non volevano alcuna restrizione all’attività economica. Più in generale, si usa anche per indicare la tendenza a non porre vincoli a qualsiasi attività o desiderio umano – nota del prof]. L'abbandono dell'illusione che i mercati possano autoregolarsi e ritrovare un equilibrio di crescita dopo le crisi. L'intuito politico di Roosevelt coincideva con la teoria dell'economista britannico John Maynard Keynes: gli investimenti pubblici sono indispensabili per colmare un vuoto di domanda, quando le imprese sono sfiduciate e la disoccupazione di massa deprime il potere d'acquisto. Un dibattito al centro della battaglia tra Obama e Romney. È su questa "scelta di modello" che gli elettori si pronunceranno il 6 novembre. Ed è giusto che la festa del Golden Gate abbia questa coloritura politica.
In effetti, prima della sua costruzione San Francisco soffriva di isolamento, mal collegata con la zona nord della baia (Marin, Sausalito, Tiburon). Il prolungamento della California State 1, la strada panoramica, fu uno dei segnali di una rinascita culturale, tecnologica, economica, per quella che divenne poi la capitale della Silicon Valley. Oggi Obama cerca di convincere l'America che la competizione con le potenze emergenti si gioca anche sulla modernizzazione delle infrastrutture: molte cascano a pezzi.
Il "keynesismo sostenibile" si tinge di verde. E anche qui il Golden Gate è all'avanguardia: uno dei primi ad applicare il "congestion pricing", pedaggi per scoraggiare l'uso dell'auto individuale, dopo avere introdotto la pista ciclabile.

sabato 12 maggio 2012

alcune canzoni

postato da manuel
ecco alcune canzoni:
 rihanna we found love
http://youtu.be/tg00YEETFzg 
dj antonie "ma cherie"
http://youtu.be/CKhu7pDjarY 
avicii "levels"
http://youtu.be/_ovdm2yX4MA 
LMFAO "party rock anthem"
http://youtu.be/KQ6zr6kCPj8 

venerdì 11 maggio 2012

Ed sheeran Lego house

POSTATO DA Sofia

Ascoltatela è bellissima
http://youtu.be/c4BLVznuWnU

pitbull - Rain Over Me

ascoltatela

http://www.youtube.com/watch?v=SmM0653YvXU&feature=player_detailpage

Giochi olimpici 2012 Londra

 

POSTATO DA Sofia

Le olimpiadi estive si sono tenute ben due volte, in passato, nella città di Londra: nel 1908 e nel 1948. Quest’anno la capitale inglese si appresta a battere ogni record e diventare la prima città al mondo a ospitare i giochi olimpici estivi per tre volte. Le gare di questa XXX edizione inizieranno il 27 luglio 2012 e termineranno il 12 agosto 2012. Oltre 8 milioni di biglietti per le gare olimpiche (più un milione e mezzo per quelle paraolimpiche) sono stati messi in vendita per il pubblico già nel 2011 e sono andati esauriti nel giro di un paio di settimane.

Gli atleti saranno ospitati nei 33 impianti dell’ “Olympic and Paralympic Village”, un enorme complesso sportivo costruito nel parco olimpico di Stratford (zona est di Londra), al cui interno sono situate anche numerose strutture per le competizioni: l’Olympic Stadium, l’Acquatics Centre e il Velopark per le gare di BMX e mountain bike, ad esempio, fanno parte di questo complesso.
Il villaggio olimpico ha una capienza di 17320 posti letto distribuiti in 3300 appartamenti, ciascuno fornito di televisione, accesso a internet e giardino privato. Tutte le gare saranno trasmesse in diretta televisiva dalla rete nazionale BBC e da Channel 4 (l’emittente che ha ottenuto l’esclusiva per la copertura dei giochi paraolimpici).I bookmaker inglesi, la cui tradizione è radicata nel tessuto sociale di questa nazione, si aspettano un notevole incremento delle scommesse in coincidenza con l’inizio delle gare olimpiche.
Il villaggio olimpico non è l’unica zona destinata a ospitare le gare: molte competizioni si terranno in altre parte di Londra, tra le quali la River Zone (vicino al Tamigi) e la Central Zone (nel cuore della città). Le gare di vela si svolgeranno addirittura nel Dorset, un’area a sud di Londra che dista circa 200 Km dal villaggio olimpico.
In materia di trasporti, il governo inglese ha stanziato un progetto di rimodernamento di numerose infrastrutture della capitale in vista del massiccio afflusso di visitatori nel corso dell’estate 2012. Le linee della Tube Northern, Jubilee e Central line sono state rimodernate mentre l’Overground e la DLR, due mezzi di trasporto alternativi rispetto alla metropolitana, sono state estese fino a coprire la parte a est di Londra e la zona olimpica.I costi delle olimpiadi, nell’ordine dei 2 milioni di sterline, sono stati sostenuti grazie all’utilizzo di un fondo stanziato da vari partner e investitori privati e pubblici, tra i quali figurano Cola Cola, Acer, Mec Donald’s e Samsung.
Da marzo dello scorso anno è presente, in Trafalgar Square, un orologio digitale che tiene il conto alla rovescia per l’inizio dei giochi olimpici.

Rihanna where have you been!!- Justin B. Boyfriend

POSTATO DA Sofia

Lo so come sapete la mia band preferita in assoluto sono gli One direction,ma al secondo posto c'è Rihanna, questa canzone è bellissima,ascoltatela!!
http://youtu.be/H-0OuRVCAK8 
Justin Bieber ok...non è mai stao il mio idolo, ma questa canzone la trovo molto carina...che ne dite?
http://youtu.be/xYoxBQ03wUQ

BUON ASCOLTO C:

domenica 6 maggio 2012

Una mostra dedicata alla Divina Commedia

POSTATO dal prof d’italiano:

Leggete questo articolo pubblicato su la Repubblica il 5 maggio 2012 e guardate le immagini; e se avete voglia e tempo, andate a vedere la mostra.

LA DIVINA ILLUSTRAZIONE
DA DORÉ A RAUSCHENBERG
SE L' INFERNO DI DANTE È COME LO SI DIPINGE
Di Paolo Mauri
PARMA - Verso la fine degli anni Cinquanta Gianfranco Contini scrisse a Roberto Longhi per chiedergli un consiglio su una eventuale mostra da dedicare alle illustrazioni del poema dantesco in vista del settimo centenario della nascita che cadeva nel 1965. Longhi rispose, intanto, con qualche appunto in cui riepilogava il lungo cammino degli illustratori danteschi, suggerendo di cominciare con una sezione dedicata all'immagine di Dante stesso dall'affresco del Bargello a Botticelli, ma spingendosi avanti nei secoli sino al Dantes Adriaticus di Adolfo de Carolis. Nella rapida rassegna degli illustratori della Commedia, arrivando all'Ottocento, Longhi accenna ad illustratori italiani "che vale la pena di esporre", ma senza fare nomi. Uno lo avanza ora meritoriamente la Fondazione Magnani Rocca ed è quello di Francesco Scaramuzza di cui presenta 243 disegni realizzati tra il 1861 e il 1876 mettendoli a confronto con le 135 tavole incise da Gustave Doré, che tra le illustrazioni moderne del capolavoro dantesco sono certamente le più popolari. Scaramuzza è anche l'autore degli affreschi danteschi che ornano la Biblioteca Palatina di Parma: dunque si può dire un pittore fedelissimo a Dante. Ma quale Dante? Dobbiamo dire subito che ogni illustratore nel leggere Dante per immagini ci mette moltissimo del suo e certamente il Romanticismo si impossessò del poema e di certe sue scene "madri" ricolme di passione e di orrore, specie nell'Inferno. Racconta Stefano Roffi, che ha curato mostra e catalogo della Fondazione Magnani Rocca, che un critico ottocentesco, Luciano Scarabelli, volle istituire un parallelo tra Doré e Scaramuzza, cercando di dimostrare che l'italiano aveva meglio interpretato Dante. A noi sembra, invece, che Scaramuzza sia meno inventivo di Doré, anche se in qualche modo più aderente al testo. La sua lettura sa di accademia, anche se è un'accademia di ottima levatura. Domina la mostra un Lucifero che sembra, suggerisce Roffi, un gigantesco pelouche. L'Ottocento, comunque, aveva ripreso fortemente e gloriosamente il culto dantesco e basterebbe citare John Flaxman, Heinrich Füssli e William Blake per indicare una tendenza non certo episodica. L'Italia, alle prese con i problemi dell'Unità, fece quel che poteva. A Firenze Alinari bandì più tardi anche un concorso. Scaramuzza espose nel 1877 al Liceo Visconti di Roma, allora appena inaugurato, ottenendo anche un certo successo. Ma, scrive Claudio Zambianchi in un foltissimo numero speciale in tre volumi della rivista Critica del testo dedicata a Dante (ed. Viella) "se sotto il profilo delle arti visive l'Ottocento è un secolo dantesco per eccellenza, non così il Novecento". E conclude poi che "il più importante ciclo di opere visive dedicate alla Commedia nel XX secolo è probabilmente la serie di trentaquattro illustrazioni eseguito tra il 1958 e il 1960 da Robert Rauschenberg". Anche Rauschenberg naturalmente legge la Commedia, e qui in particolare l'Inferno, a suo modo, mettendoci dentro per esempio Richard Nixon e altri ostentati prelievi dalla contemporaneità. D'altra parte Dante aveva fatto lo stesso mettendo molti suoi contemporanei all'inferno... Dire che il Novecento non è un secolo dantesco non esclude che in molti si siano misurati con Dante, a cominciare da un artista originale come Arturo Martini. A metà secolo arrivò poi l'episodio Dalí, che affrontò la Commedia in modo assolutamente singolare creando naturalmente un certo scandalo. Ilaria Schiaffini, nella rivista appena citata, ricostruisce l'intera e gustosa vicenda. Dalí aveva usato soltanto colori chiari in aperto contrasto con la tradizione ottocentesca. E aveva dichiarato: "Il romanticismo aveva perpetrato l' ignominia di far credere che l'inferno fosse nero come le miniere di carbone di Gustave Doré dove non si vede niente. Tutto ciò è falso. L'inferno di Dante è rischiarato dal sole e dal miele del Mediterraneo...". Ma poteva il realismo dantesco sfociare impunemente nel surrealismo esasperato del pittore catalano? Non senza qualche sofferenza. Il che accade anche nel caso di un minore illustratore italiano, Amos Nattini, che aveva cominciato con d'Annunzio e le sue gesta d'oltremare e aveva poi dedicato vent'anni della sua vita a tradurre Dante in acquerelli, un centinaio, che oggi la Magnani Rocca espone nel salone contiguo a quello che accoglie Scaramuzza e Doré. Nattini non ha una sua visione di Dante, ma lo traduce in una fantasia di colori, ora più cupi ora più vividi e brillanti, prediligendo le scene di massa ove però si distinguono bene i corpi dei penitenti. Corpi che hanno visi moderni, forse di amici o conoscenti del pittore, gratificati di un passaggio nell'aldilà. Nattini sembra ad un passo dall'illustrazione popolare, in cui non è la novità dello stile a prevalere, ma la coerenza di un omaggio didascalico. Accadrà anche nel cinema, che fin dai suoi inizi dedicherà a Dante diverse pellicole, come ricorda, ancora nella rivista sopra citata, Salvatore Maira, aggiungendo che "la figurazione generale dell'Inferno resta per circa un secolo regolata dalla ripetizione di un'iconografia elementare che il cinema può utilizzare come funzione di ricono-scimento immediato di situazioni, immagini, atmosfere". Di recente è stato restaurato dalla cineteca di Bologna un film di cento anni fa: appunto Inferno di Francesco Bertolini, Adolfo Padovan e Giuseppe De Liguoro, che era stato prodotto dalla Milano film. Un kolossal, per l'epoca, con oltre mille metri di pellicola. Si ispira soprattutto a Doré, cercando proprio quel riconoscimento immediato di episodi e situazioni attraverso una serie di "tableaux vivants" che le didascalie introduttive aiutano a riconoscere. Per uscire dalle letture più o meno scolastiche bisognerà attendere parecchio tempo. Maira ricorda il breve film d'avanguardia The Dante Quartet di Stan Brakhage del 1987 che dura solo sei minuti, ma è il risultato di anni di intenso rapporto con la Commedia. Nel '91 Manuel De Oliveira ha girato una Divina Commedia mettendo in una clinica psichiatrica Adamo ed Eva, Aliosha e Karamazov, Gesù e Lazzaro, Nietzsche e Raskolnikov... Dopo le mostre dantesche che Corrado Gizzi organizzò a Torre dei Passeri, in Abruzzo, ora la Fondazione Magnani Rocca riapre il discorso sul grande tema delle illustrazioni della Commedia. Dante ha stupito i suoi contemporanei, perché, come scrive Erich Auerbach, nessuno prima di lui aveva usato in modo così ricco e articolato il volgare. Noi questa novità non la percepiamo più, ma Dante continua a stupirci per molti altri motivi, come se fosse sempre avanti a noi a mostrare il più insolito dei cammini.

Alcune immagini presenti alla mostra (e non solo):

Gustave Doré, Dante

Gustave Doré, La selva oscura (Inferno, canto I)

Gustave Doré, Caronte (Inferno, canto III)

Gustave Doré, Gli avari e i prodighi (Inferno, canto VII)

Gustave Doré, Minosse (Inferno, canto V)

Gustave Doré, Paolo e Francesca (Inferno, canto V)

Francesco Scaramuzza, Gerione (Inferno, canto XVII)

Gustave Doré, I simoniaci (Inferno, canto XIX)

Gustave Doré, Vanni Fucci (Inferno, canto XXV)

Amos Nattini, I consiglieri fraudolenti (Inferno, canto XXVI)

Gustave Doré, I Giganti (Inferno, canto XXXI)

Gustave Doré, Il conte Ugolino (Inferno, canto XXXII-XXXIII)

Francesco Scaramuzza, Lucifero (Inferno, canto XXXIV)

Gustave Doré, Sordello e Virgilio (Purgatorio, canto VI)

Francesco Scaramuzza, L'angelo portiere (Purgatorio, canto IX)

Amos Nattini, Alla vista di Beatrice Dante cade vinto (Purgatorio, canto XXXI)

 Gustave Doré, San Francesco cerca di convertire il sultano (Paradiso, canto XI)

Recensioni a "Hunger Games"

POSTATO dal prof d’italiano:

Per chi vuole andare a vederlo, o per chi l’ha già visto, ecco alcune recensioni del film del momento:


Dal Corriere della Sera:
Gare mortali tra ragazzi: videogioco senz’anima. Incassi record. Ma non è grande cinema
Di Paolo Mereghetti
Travolti da una montagna di incassi (359 milioni di dollari negli Usa fino al weekend scorso, 272 milioni in euro. E non è finita), sommersi da «spiegazioni» e «informazioni» di ogni tipo (la prossima settimana Castelvecchi pubblicherà ben due guide ufficiale all'evento: al film e ai «tributi», cioè ai protagonisti), si rischia l'overdose. Così come indicare una possibile ascendenza cinefila (La pericolosa partita, 1932, di Schoedsack e Pichel) può innescare una libertà interpretativa che il film di Gary Ross non merita e non giustifica. Diciamolo subito: i riferimenti alla storia di Roma antica sono da fumetti, in linea coi centurioni a pagamento con cui i turisti si fanno fotografare davanti al Colosseo; i rimandi alle divisione tra «poveri» e «ricchi» (che di scontro di classe non si può proprio parlare) sono talmente schematici da sfidare il ridicolo; e le allusioni alla dittatura dei media sono così superficiali e folcloristiche da giustificare l'idea che siano state messe lì per «imbrogliare» un po' le carte, furbesco tributo allo spirito dei tempi.
Questo non vuol dire che il film non funzioni come giocattolone adolescenziale, ma il suo posto è più tra i videogame e i gioco di ruolo che tra i titoli che segnano la storia del cinema. E anche pensando solo a quella degli incassi (dove è già entrato di diritto tra i primi cinquanta film di tutti i tempi) coltivo la tenue speranza che il successo in terra americana non venga bissato - almeno in proporzioni simili - anche da noi. E non per disprezzo verso il «pubblico» ma per «amore» verso il cinema e per fiducia in un maggior livello di «maturità» degli adolescenti italiani. Come una martellante campagna autopromozionale si è già preoccupata di farci sapere, il film è tratto dal primo dei tre romanzi di Suzanne Collins (pubblicati in Italia da Mondadori) e ambientato in un futuro post-moderno e post-apocalittico, nello stato di Panem (gli antichi Stati Uniti): come punizione per un'antica ribellione al potere centrale, da 74 anni si svolgono gli «hunger games», a cui i dodici Territori nazionali mandano ognuno un ragazzo e una ragazza tra i 12 e il 18 anni per un combattimento all'ultimo sangue.
A filmare chi sarà l'ultimo sopravvissuto ci pensa una specie di grande fratello televisivo, i cui programmi vengono seguiti con comprensibile apprensione dai Territori e con divertito cinismo dai ricchi privilegiati che abitano la capitale del Paese.
Nella prima ora dei 142 minuti di film, veniamo messi a conoscenza della rigida divisione sociale che vige a Panem, più variegata nel romanzo e più drammatica nel film, che ci mostra solo i poverissimi minatori del dodicesimo Territorio, quello da cui provengono i due «tributi» Katniss, (Jennifer Lawrence) che si è offerta volontaria al posto della sorellina minore sorteggiata, e Peeta (Josh Hutcherson). Scopriamo chi muove le fila del combattimento (Wes Bentley) e chi quelle del potere politico (Donald Sutherland), quali sono le regole del combattimento e quelle dello spettacolo (guidato da un inquietante Stanley Tucci). E soprattutto ci sforziamo di orientarci tra i vari indizi che la sceneggiatura (del regista, dell'autrice dei romanzi e di Billy Ray) lascia ogni tanto cadere: l'importanza del look (c'è Lenny Kravitz a occuparsi di quello di Katniss e Peeta), del bisogno di ingraziarsi gli spettatori abbienti (chiamati apertamente sponsor dal «consigliere» Woody Harrelson), di far colpo sul romanticismo di chi guarda e soprattutto sul ruolo di «circenses» cui tutti i «tributi» sono costretti dalle regole di Panem.
Peccato che tutto o quasi venga abbandonato nella seconda parte del film, dove seguiamo soprattutto la lotta dei due rappresentati del dodicesimo territorio per sopravvivere: senza una vera spiegazione diventano loro i «buoni» per cui tifare mentre uno dopo l'altro vengono abbandonati o dimenticati gli elementi «sociologici» scoperti nella prima parte. Resta, com'era prevedibile, un sottofondo di rozzo darwinismo sociale (la lotta per la sopravvivenza) appena un po' riscattato dal solito «omnia vincit amor». Con buona pace di chi si era immaginato letture più complesse e profonde, non dico come Il signore delle mosche (di Golding e Brook) ma nemmeno come Battle Royal (di Fukasaku), mentre La pericolosa partita con i suoi inquietanti incubi fantastici sembra lontanissima. Anche per via di una certa ipocrisia visiva, che cancella le immagini più cruente dei duelli all'arma bianca, proprio quelli che potrebbero offendere non certo lo spettatore ma piuttosto il rigidissimo censore americano.


Da la Repubblica:
La fiera dei miti greci tra sottocultura televisiva e pacchetti di pop corn
Di Curzio Maltese
Al confronto di Hunger games, il fenomeno che in America ha polverizzato tutti i record d'incasso, la saga di Harry Potter sembra scritta da Shakespeare.È difficile trovare perfino fra i blockbuster una sceneggiatura così banale, con un finale prevedibile fin dal primo minuto, una scrittura dei personaggi altrettanto univoca, con i buoni garantiti al limone e i cattivi ridotti a una maschera di crudeltà.
Non bastasse, mentre l'inglese Rowling s'inventa un mondo letterario intorno al suo maghetto, la Collins, autrice del bestseller americano, si limita a copiare e assemblare un'infinita serie di miti classici, a cuocerli nel grasso della sottocultura televisiva e a distribuirli come tanti pacchetti di pop corn all'ingresso delle sale.
La storia in breve è quella di un'America del futuro, caduta in una dittatura grottesca e feroce, dove ogni anno i dodici distretti che la compongono sono chiamati a offrire il tributo di ventiquattro giovani (un maschio e una femmina ciascuno) da mandare al macello in una specie di edizione sanguinosa dell' Isola dei Famosi. Alla fine soltanto uno sopravvivrà alla prova. La protagonista Katniss Everdeen, la bellissima Jennifer Lawrence, si offre volontaria al posto della sorellina come rappresentante femminile del dodicesimo distretto, il più povero, quello degli schiavi minatori. Accanto all'eroina con arco e frecce, novella Diana, si presenta l'innamoratissimo Peeta Mellark, il bravo Josh Hutcerson, che le farà da scudiero. Date le premesse, come andrà a finire? L'oggettiva miseria artistica di Hunger games, non emendata dal talento del regista Gary Ross ( Pleasantville, Seabiscuit) e neppure dal genio di due attori formidabili come Donald Sutherland e Stanley Tucci, nei ruoli del vecchio dittatore e del cinico presentatore televisivo, rende naturalmente ancora più avvincente il mistero dello straordinario successo. All'impero americano piace rappresentarsi certo con le metafore dell'antichità, che qui sono sparse a piene mani, dal mito del Minotauro alla lotta dei gladiatori, agli stessi nomi del regno, Panem («i circenses sono scontati», ha scritto Vittorio Zucconi), e della città, Capitol.
Da sociologi da strada, si può citare anche la paura per la fine della democrazia e l'angoscia per il futuro delle giovani generazioni, vampirizzate da una società egoista e gerontocratica. Due elementi che non mancano in nessuna delle saghe popolari di questi ultimi vent'anni. Ma la vera ragione del successo del film è probabilmente la più deprimente: il gelido calcolo commerciale dell'operazione, il grado zero di scrittura e invenzione, la totale aderenza agli stilemi televisivi. Hunger games è uguale alla televisione, ma portata all'estremo dagli effetti speciali del grande schermo. Per dirla con le immortali parole di Macbeth, Hunger games è come la vita di tutti i giorni, una favola è raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.


Da la Stampa:
“Hunger Games” Combatti e sopravvivi
Di Alessandra Levantesi Kezich

Negli Usa la trilogia Hunger Games di Suzanne Collins (Mondadori) è un bestseller che vanta illustri estimatori quali Stephen King; anche se alcuni opinionisti, in considerazione della destinazione «young adult» della saga, ne hanno giudicato eccessivo il livello di violenza.
Gli Hunger Games sono infatti una spietata partita di morte fra adolescenti di entrambi i sessi, costretti a uccidersi l’un l’altro fino a che non rimane in vita un solo vincitore. Tutto ciò si svolge a Panem – ovvero un’America futura - dove il 99 per cento dell’umanità, causa la progressiva penuria di cibo, vive sfruttata e reclusa in 12 distretti; mentre una piccola minoranza, insediata nella lussuosa Capitol City, conduce un’esistenza frivola e vana. Creati dopo una sommossa, gli Hunger Games sono un tributo annuale, come un tempo i sacrifici umani agli dei (la Collins cita il mito del Minotauro fra le sue fonti ispiratrici); e, trasmessi in diretta video, rappresentano un truculento reality a diletto dei ricchi. Estratti a sorte, due per ogni distretto, i giovanissimi contendenti beneficano di un assaggio consolatorio degli agi di Capitol City; e di un’intervista tv utile a ingraziarsi gli sponsor, abilitati a truccare le carte del gioco al massacro sulla base degli indici di gradimento. Ma la sedicenne Katniss, infallibile con l’arco, non è disposta a farsi manovrare e si apre una personale strada alla vittoria, stravolgendo le regole con disappunto del Potere.
Sceneggiato dalla scrittrice stessa, il film di Gary Ross edulcora alcuni aspetti del racconto, ma la prefigurazione di una società ventura anti-utopica, dove i valori sono capovolti e (come scriveva G. Orwell in 84) «la pace è la guerra, la libertà è la schiavitù», resta cupa e angosciosa quale deve essere. Premiato da un botteghino planetario di 400 milioni di dollari, lo spettacolo è imbastito con efficacia sui contrasti scenografici fra i ghetti dei poveri, il regno del privilegio e la foresta-set che funge da arena. In questo habitat si muove vigile e determinata Jennifer Lawrence, che già in Un gelido inverno si era dimostrata convincente, combattiva eroina senza macchia.


Da FilmTV:

di Chiara Bruno
È difficile restare umani, nel futuro scritto da Suzanne Collins. Il Nordamerica è lo Stato di Panem, diviso in 12 Distretti la cui numerazione cresce proporzionalmente alla penuria di cibo. Sono governati da Capitol City, ipertecnologica città di smeraldo che ne sfrutta lavoro e risorse assicurando benessere alla sua frivola gente. Opporsi è impensabile dopo una rivolta tragicamente fallita: a ciò si deve l’istituzione degli Hunger Games, il reality show che ogni anno coinvolge un ragazzo e una ragazza da ogni Distretto e li getta in un’arena da cui uscirà un solo vincitore con le mani sporche di sangue. ESPANDI +
Quando viene sorteggiata la piccola Prim, la sorella 16enne Katniss si offre volontaria. Le prove cui sarà sottoposta sposteranno il fulcro della sua età incerta, costringendola a scelte più forti delle braccia e del cuore di un’adolescente. La Trilogia che in America è un caso letterario, paragonabile alla Twilight Saga (solo) per incassi e target (quei “giovani adulti” che muovono i fili dell’industria creativa), nella trasposizione mantiene intatta la crudeltà del combattimento ma lascia incompiuti gli altrettanto feroci tumulti dell’animo. L’impianto di concetti complessi sulla macchina semovente del blockbuster è un innesto solo parzialmente riuscito, e forse mai rincorso fino in fondo: il compromesso come scelta vitale, il tritacarne mediatico metaforico e letterale, il romanzo di formazione dell’eroina schiva ma determinata stanno al film come il vestito meticolosamente elaborato per Katniss dallo stilista futuristico Lenny Kravitz: brucia girando su se stesso, ma produce fuoco sintetico, scintilla decorativa e sicura. Un sorriso della «ragazza in fiamme» basta ad accendere la platea, ma quando i riflettori si abbassano e gli sguardi braccano la terra - bruciata, percossa, disumana - di brutale rimangono i movimenti di macchina. Il libro si affidava alla voce di Katniss, arma a doppio taglio che ne vivificava l’impeto combattivo e al contempo ne svelava spasmi e insicurezze, dissidi e ambiguità nella lotta tra realtà e sovrastruttura. Il film si attiene rigidamente alla matrice letteraria per quanto concerne la storyline, ma non trova mai la forza di rompere lo specchio tra schermi: quelli di Capitol City e il nostro. Nonostante l’ottima Jennifer Lawrence, cacciatrice dallo sguardo vitreo al suo secondo gelido inverno, restiamo spettatori di un gioco al massacro che traduce in extremis dinamiche contemporanee. Solo abdicando alla condizione di testimoni saremmo realmente liberi.

Q.I.

POSTATO dal prof d’italiano:

Apparso su la Repubblica il 3 maggio 2012, questo articolo è dedicato a chi vuol saperne di più sul Quoziente di Intelligenza.


Intelligenti si diventa: ecco la ginnastica che allena la mente
Di Angelo Aquaro
Anche Einstein, nel suo piccolo, aveva torto? "La differenza tra il genio e la stupidità" diceva l'immenso Albert "è che il genio ha i suoi limiti". Contrordine maestro: non solo il genio potrebbe non avere più limiti, ma geni possiamo diventarlo tutti. Anche noi stupidi. E per farlo basterebbe affidarsi a piccoli esercizi quotidiani. Sì, la ginnastica della mente. Gli addominali per la pancia e i test per il QI: il quoziente di intelligenza. Sarebbe tutta questione di allenamento. Intendiamoci: qui non si parla dell'intelligenza intesa come apprendimento. Gli psicologi la chiamano "intelligenza cristallizzata". Ma la definizione coniata da Raymond Cattell giusto cinquant'anni fa rischia di essere fuorviante: perché non è cristallizzata una volta per sempre, ma al contrario "cristallizza" le conoscenze che per tutta la vita non smettiamo di accumulare. Che siano nozioni: quanti pianeti ci sono nel nostro sistema solare. Che siano azioni: saper andare in bicicletta. No, è l' altra intelligenza - identificata sempre da Cattell - quella che finora ci ha intrigato di più: l'intelligenza fluida. L'intelligenza fluida è quella che ci permette di "capire". Cioè di amministrare le informazioni che accumuliamo. L'intelligenza fluida è quella che coglie il senso delle cose: anche di quelle apprese con l'intelligenza cristallizzata. Per tanto, troppo tempo gli scienziati hanno cercato non solo di misurare l'intelligenza - cristallizzata e fluida - con i temibili test di QI: ma anche di misurare gli eventuali miglioramenti. Finora invano. L'intelligenza cristallizzata funziona grazie alla memoria cosiddetta a lungo termine: ricordo dunque imparo. L'intelligenza fluida si basa invece sulla cosiddetta "working memory". Ed è questa la memoria che ci rende quello che siamo: umani. Diversi insomma dalle specie a noi simili come quelle degli altri primati. Per questo la "working memory" non potrebbe migliorare. «L'intelligenza fluida non è culturale» spiega al New York Times Randall Engle della Georgia Tech School of Psychology. «È quasi certamente la parte biologicamente determinata: controllata dalla corteccia prefrontale». E così, ci piaccia o no, in nome del determinismo biologico saremmo condannati alla nostra intelligenza più o meno mediocre. Ma il mondo della scienza è adesso scosso dalle scoperte che hanno spinto proprio il New York Times a dedicare un numero speciale del suo magazine all'ipotesi di due studiosi svizzeri. Negli ultimi cinque anni Suzanne Jaeggi e Marin Buschkuehl avrebbero infatti provato che anche la "working memory" si può migliorare: proprio allenandosi sullo stesso tipo di test che misurano il nostro QI. Basterebbero addirittura dai 15 ai 25 minuti di allenamento al giorno, cinque giorni alla settimana: e le migliorie sarebbero già visibili dopo la quarta settimana di test. I nuovi esperimenti sembrano funzionare soprattutto con i ragazzi: e qui la nuova ipotesi incrocia la vecchia - perché finora si è sempre sospettato che l'intelligenza fluida raggiungesse il suo culmine e smettesse di crescere proprio alla fine dell'adolescenza. Tutti più intelligenti con venti minuti di test in più? Gli stessi scienziati che stanno cambiando la nostra concezione dell'intelligenza non sono così stupidi da crederlo. Ci sono due ma. Il primo è l'eterno nemico di ogni sforzo d'apprendimento e miglioramento: la noia. E nulla è così noioso come un test d'intelligenza: al punto che gli studiosi, per ottenere risultati concreti tra i più giovani, hanno dovuto approntare un sistema di premi e gratificazioni. Il secondo ci riporta ai limiti di ogni allenamento. «Se vai a correre per un mese» ricorda lo stesso Jaeggi «migliori il tuo fisico. Ma sentirai il benessere per il resto della tua vita? Probabilmente no». Parafrasando il vecchio Einstein, davvero allora la stupidità non avrebbe limiti: tirandosi indietro perfino di fronte alla fatica di diventare genio.

 
 

Laboratorio affettivo-sessuale: lezione 17

THE BEATLES: GOLDEN SLUMBERS / CARRY THAT WEIGHT / THE END (1969)
Once there was a way to get back homeward
Once there was a way to get back home
Sleep pretty darling do not cry
And I will sing a lullaby

Golden slumbers fill your eyes
Smiles awake you when you rise
Sleep pretty darling do not cry
And I will sing a lullaby

Once there was a way to get back homeward
Once there was a way to get back home
Sleep pretty darling do not cry
And I will sing a lullaby

Boy, you're going to carry that weight,
Carry that weight a long time
Boy, you're going to carry that weight,
Carry that weight a long time

I never give you my pillow
I only send you my invitations
And in the middle of the celebrations
I break down

Boy, you're going to carry that weight
Carry that weight a long time
Boy, you're going to carry that weight
Carry that weight a long time

Oh yeah, all right
Are you going to be in my dreams
Tonight?
And in the end
The love you take
Is equal to the love
You make
C’era una volta una strada per tornare verso casa
C’era una volta una strada per tornare a casa
Dormi bel tesoro non piangere
E io canterò una ninnananna
Sogni d’oro riempiano i tuoi occhi
Ti sveglino sorrisi quando ti alzi
Dormi bel tesoro non piangere
E io canterò una ninnananna

C’era una volta una strada per tornare verso casa
C’era una volta una strada per tornare a casa
Dormi bel tesoro, non piangere
E io canterò una ninnananna

Ragazzo, dovrai portare quel peso,
Portare quel peso a lungo
Ragazzo, dovrai portare quel peso,
Portare quel peso a lungo

Non ti do mai il mio cuscino
Ti mando solo i miei inviti
E nel mezzo dei festeggiamenti
Io crollo

Ragazzo, dovrai portare quel peso,
Portare quel peso a lungo
Ragazzo, dovrai portare quel peso,
Portare quel peso a lungo

Oh sì, bene
Sarai nei miei sogni
Stanotte?
E alla fine
L’amore che prendi
È uguale all’amore
Che dai

Queste 3 canzoni (incise senza soluzione di continuità) chiudono il disco “Abbey Road” del 1969, l’ultimo lavoro dei Beatles (nel 1970 uscì “Let it be”, che in realtà era stato inciso prima di “Abbey Road”). Malgrado la carriera dei “fab four” non sia finita qui, si può dire che queste sono le ultime parole che hanno cantato assieme. Il disco “Abbey Road” è famosissimo anche per la copertina: vi si vedono i 4 Beatles che attraversano le strisce pedonali appunto in Abbey Road, la strada di Londra dove c’erano gli studi di registrazione della EMI; da quando venne pubblicato il disco, su quelle strisce pedonali si sono fatti fotografare milioni di fans dei Beatles.

DOMANDA:
Davvero l’amore che prendi è uguale all’amore che dai? Oppure in una storia d’amore c’è sempre qualcuno che ama di più e qualcuno che ama di meno?

RIFLESSIONI:

Ascolta I 3 brani, cliccando qui:
http://youtu.be/LjOl0fG72ZE

Laboratorio affettivo-sessuale: lezione 16

THE BEATLES: GETTING BETTER (1967)


It’s getting better all the time
I used to get mad at my school
The teachers who taught me weren’t cool
Holding me down,
Turning me round
Filling me up with your rules.
I’ve got to admit it’s getting better
It’s a little better all the time
I have to admit it’s getting better
It’s getting better since you’ve been mine.
Me used to be angry young man
Me hiding me head in the sand
You gave me the word
I finally heard
I’m doing the best that I can.
I admit it’s getting better
It’s a little better all the time yes
I admit it’s getting better
It’s getting better since you’ve been mine.
I used to be cruel to my woman
I beat her and kept her apart from the
Things that she loved
Man I was mean
But I’m changing my scene
And I’m doing the best that I can.
I admit it’s getting better
It’s a little better all the time
Yes I admit it’s getting better
It’s getting better since you’ve been mine.
Getting so much better all the time.
Va sempre meglio
Prima a scuola diventavo matto
I miei insegnanti non avevano pazienza
Mi opprimevano
Mi schiacciavano
Mi imbottivano di regole.
Devo ammettere che va meglio
Poco per volta va sempre meglio
Devo ammettere che va meglio
Va meglio da quando sei stata mia.
Prima ero un ragazzo ribelle
Nascondevo la testa nella sabbia
Ma tu mi hai detto la parola
Che finalmente ho ascoltato
E adesso faccio del mio meglio.
Ammetto che va meglio
Poco per volta va sempre meglio, sì
Ammetto che va meglio
Va meglio da quando sei stata mia.
Prima ero crudele con la mia donna
La battevo e la tenevo lontana
Dalle cose che amava
Ero un uomo meschino
Ma sto cambiando stile di vita
E adesso faccio del mio meglio.
Ammetto che va meglio
Poco per volta va sempre meglio
Sì ammetto che va meglio
Va meglio da quando sei stata mia.
Va sempre molto meglio.


Oltre che alla musica, i Beatles furono sempre attenti anche ad altri aspetti del loro lavoro, a cominciare da quello artistico: le copertine dei loro dischi, per esempio, erano molto curate e spesso erano esse stesse degli oggetti d’arte, proprio mentre negli Stati Uniti si imponeva la pop art di Andy Warhol. Così, anche, ebbe la sua importanza il logo della Apple (la casa discografica del gruppo), cioè appunto una mela, che nei dischi in vinile figurava come nell’immagine qui a fianco; per chi all’epoca comperava i dischi dei Beatles era un autentico piacere mettere sul piatto del giradischi il disco con la mela!



DOMANDA:
L’amore può cambiare il carattere di una persona? Può renderla più tranquilla, più serena, meno facile alla ribellione?

RIFLESSIONI:


Per ascoltare la canzone, clicca qui:




Laboratorio affettivo-sessuale: lezione 15

THE BEATLES: WHEN I’M SIXTY-FOUR (1967)


When I get older losing my hair,
Many years from now,
Will you still be sending me a Valentine
Birthday greetings bottle of wine?
If I’d been out till quarter to three
Would you lock the door?
Will you still need me, will you still feed me,
When I’m sixty-four?
You’ll be older too,
And if you say the word, I could stay with you.
I could be handy, mending a fuse
When your lights have gone.
You can knit a sweater by the fireside
Sunday morning go for a ride,
Doing the garden, digging the weeds,
Who could ask for more.
Will you still need me, will you still feed me,
When I’m sixty-four?
Every summer we can rent a cottage,
In the isle of Wight, if it’s not too dear
We shall scrimp and save grandchildren on your knee
Vera Chuck & Dave.
Send me a postcard, drop me a line,
Stating point of view
Indicate precisely what you mean to say
Yours sincerely, wasting away
Give me your answer, fill in a form
Mine for evermore.
Will you still need me, will you still feed me,
When I’m sixty-four?
Quando sarò vecchio e perderò i capelli,
Fra molti anni,
Mi manderai ancora un bigliettino d’amore
E una bottiglia di vino con gli auguri per il mio compleanno?
Se starò fuori fino alle tre meno un quarto
Sprangherai la porta?
Avrai ancora bisogno di me, mi farai ancora da mangiare
Quando avrò sessantaquattro anni?
Anche tu sarai vecchia,
Ma se lo vorrai, io potrò stare con te.
Mi renderei utile, potrei riparare le valvole
Quando andrà via la luce.
Tu potresti sferruzzare accanto al fuoco
La domenica mattina andremmo a fare un giretto,
Ci metteremmo a curare il giardino, a strappare le erbacce,
Cosa si può chiedere di più?
Avrai ancora bisogno di me, mi farai ancora da mangiare
Quando avrò sessantaquattro anni?
Ogni estate potremmo affittare una villetta
Nell’isola di Wight, se non è troppo cara
E potremmo far economia e tenere sulle ginocchia
I nipotini: Vera, Chuck e Dave.
Mandami una cartolina, scrivimi due righe,
Chiarendo il tuo punto di vista,
Spiegami con precisione quello che intendi dire
Con «sinceramente tua», mi sto consumando
Dammi una risposta, da’ un contenuto alla forma
«Mio per sempre».
Avrai ancora bisogno di me, mi farai ancora da mangiare
Quando avrò sessantaquattro anni?



All’inizio della loro carriera, Ringo Starr non era il batterista dei Beatles; al suo posto c’era un oscuro Pete Best, che viene allontanato dal gruppo prima dell’esplodere della beatlemania e, da allora, viene ricordato come il batterista più sfortunato di tutti i tempi. Pete Best fu allontanato probabilmente perché aveva un carattere troppo tranquillo, rispetto agli altri 3, molto più ribelli e scavezzacollo. Sembra che il regista Peter Cattaneo si sia ispirato a lui nell’ideare il film del 2008 “The rocker – Il batterista nudo”.

DOMANDA:
Quando si ama, è logico pensare a un futuro insieme? Riesci a immaginarti a 64 anni assieme a una persona con cui hai passato tutta la tua vita?

RIFLESSIONI:


Ascolta la canzone cliccando sul link: