Sulla morte di Marco Simoncelli ho trovato su la Repubblica di martedì 25 ottobre 2011 questi 2 diversi interventi:
QUEI RAGAZZI DELLO SPORT UNITI DAL LUTTO
Di Emanuela Audisio
Colpisce che tutti siano rimasti c o l p i t i d a l l a morte di Marco. Il basket, il calcio, il volley, la scherma, lo sci, tanti campioni hanno voluto ricordarlo. Dargli una carezza da lontano. Non solo il mondo delle due ruote. Da Gattuso a Vezzali, da Gallinari a Moelgg a Tagliariol a Schumacher. Lo ha pianto anche la Spagna, con le parole di Iniesta. I campionati si sono fermati per un minuto. E in quel minuto c' era una partecipazione sincera, non d' obbligo. In molti lo conoscevano e a tutti pareva un amico, anche a chi lo aveva solo sfiorato. Lo sport metabolizza in fretta, non vuole soffrire, è sempre molto concentrato sui propri muscoli, sul risultato, sull' impegno imminente. Si rispetta l' altro, ma non si ha quasi mai tempo per l' altro. C' è la partita, la classifica, l' allenamento da non perdere. Però i calciatori nello spogliatoio domenica mattina avevano una faccia buia. Non volevano rassegnarsi. Però Danilo Gallinari, gigante del basket, continuava a dire: «Aveva la mia età, era come me. Non capisco, non accetto». Improvvisamente tutti si sono sentiti fragili, nella loro gloria, nella loro quotidianità. Simoncelli nello strazio è diventato tutti. In tanti forse piangendo per lui hanno pianto anche per se stessi. Per quello che erano all' inizio. Per quell' anima che non hanno più o che ormai è in forma ridotta, small size. Marco ancora sognava, era naif, spingeva per arrivare, la sera la passava con i meccanici, restava attaccato alla sua passione, ringraziava i genitori per avergli regalato con i sacrifici quel sogno. Non si sentiva diverso, ma uguale a tutti quelli che amano correre e che ci provano. Lo sport sa riconoscere nello specchio la propria gioventù e quando si spezza piange non solo la sua bellezza rovinata, ma la voglia genuina di non farla mai finita.
BASTA CON LA VELOCITÀ FERMATE I GRAN PREMI
Di Giovanni Valentini
Nella mitologia della velocità, per cui immoliamo quotidianamente le nostre frettolose esistenze come sull' altare di una divinità pagana, forse si può commemorare la morte in pista del pilota Marco Simoncelli con un' elementare domanda:a che cosa servono, al giorno d' oggi, le gare di motociclismo e di automobilismo? Una volta si diceva che servivano a far evolvere la tecnologia, anche sul piano del comfort e della sicurezza, a vantaggio di tutti: dai freni a disco alla "cellula di sopravvivenza", dal cambio automatico alle appendici aerodinamiche eccetera eccetera. Ma regge ancora una risposta del genere di fronte alle immagini atroci del giovane centauro, caduto in curva e stritolato dalle ruote dei suoi incolpevoli rivali? Nell' era della virtualità, in cui ormai qualsiasi situazione può essere simulata e riprodotta perfettamente al computer, non c' è più ragione di rischiare la vita in una gara di velocità, se non per alimentare lo show business delle corse, dal vivo o in tv, con relativo sfruttamento commerciale e pubblicitario. Se poi fosse accertato che Simoncelli è stato tradito proprio dalla tecnologia, e in particolare dal sistema elettronico di controllo della trazione, questo sarebbe davvero un cinico e beffardo paradosso. O magari un ammonimento contro il "complesso di Icaro" che perseguita l' umanità dalle origini: l' illusione di poter sfidare impunemente le leggi della natura e della ragione per dominare il mondo. Ma, nella morte di Simoncelli, c' è un altro aspetto che impone una riflessione generale nella società della comunicazione in cui tutti viviamo. Qual è il messaggio che, attraverso l' amplificazione mediatica della diretta tv, diffondono le corse motociclistiche e automobilistiche? Qual è il modello di comportamento che trasmettono, soprattutto ai più giovani? Qual è, insomma, la "lezione" che - seppure in modo subliminale - impartiscono? Bandita dai limiti stradali e autostradali, la velocità in pista torna a essere - appunto - un mito collettivo. Un tabù da violare. Uno "stile di vita", tanto pericoloso quanto più suggestivo e attraente. La riduzione dei consumi, indotta innanzitutto dall' aumento del prezzo dei carburanti e promossa responsabilmente dalle stesse case produttrici di auto o di moto, viene sacrificata in funzione della "sgommata", dello scatto o dell' accelerata più o meno bruciante. E, insieme al risparmio energetico, passa in secondo piano anche la lotta all' inquinamento ambientale. Ma, ciò che è ancora più grave, sotto l' influsso della narrazione agonistica l' abilità nella guida tende fatalmente a degenerare nell' imprudenza, nell' azzardo o addirittura nella scorrettezza e nella violazione sistematica del codice stradale. Il sorpasso a destra, la frenata al limite, la manovra spericolata, sono modelli negativi esaltati e legittimati dalle riprese televisive negli autodromi di tutto il mondo. Una scuola-guida diseducativa e funesta, di cui molti di noi genitori siamo stati talvolta "cattivi maestri". Lo show business delle corse contribuisce così ad abbassare o azzerare quella "coscienza del limite" che al giorno d' oggi dovrebbe presiedere ai nostri comportamenti quotidiani, individuali e di massa. Limite allo sviluppo, innanzitutto. E quindi, limite al consumo, all' opulenza, allo spreco e infine anche alla velocità, secondo quella che viene definita la nuova "etica dei consumi". A volte, si ha quasi l' impressione invece che il genere umano - forse per esorcizzare la paura esistenziale - sia tutto proteso ad accelerare la propria fine, a distruggere le risorse ambientali, a compromettere la sua stessa sopravvivenza. Corriamo come matti, dalla mattina alla sera, nell' ansia affannosa di arrivare a chissà quale provvisorio e precario traguardo. Pensiamo, parliamo e comunichiamo sempre più velocemente; camminiamo e viaggiamo; mangiamo, dormiamo e facciamo perfino l' amore sempre più in fretta. Ormai, come scrive il filosofo Zygmunt Bauman nel suo saggio più recente, viviamo "vite che non possiamo permetterci". Ma, in memoria di Simoncelli, dobbiamo dire che ci sono anche morti che non possiamo più permetterci. E la sua, a 24 anni, su quella pista maledetta della Malesia, è purtroppo una di queste.
bravo profff!!!!!!!!!!
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