lunedì 31 ottobre 2011

Addio gite scolastiche

POSTATO dal prof d’italiano

Ecco una brutta notizia, per gli studenti delle superiori. È stata pubblicata da la Repubblica il 29 ottobre 2011. Che cosa ne pensate?

Addio gite scolastiche a casa due studenti su tre
Di Marina Cavallieri
Un tempo c'erano Roma, Firenze, Venezia. Poi Barcellona, Berlino, Praga. Negli anni sono cambiati gli orizzonti, gli studenti, i costi ma nessuno ci ha mai rinunciato. È la gita scolastica, da sempre sospesa tra cultura e vacanza, didattica e divertimento, formazione e svago. Ora però il "viaggio d'istruzione", come viene chiamato nei protocolli del ministero, rischia di sparire. Addio fuga dalla routine dei banchi, rito indimenticabile per generazioni di studenti. Per l'Osservatorio sul turismo scolastico del Touring Club nella scuola superiore c'è stato un calo netto: nel 2010/2011 le classi in gita sono passate dal 60 per cento al 38, gli studenti da 1,3 milioni a 760 mila, il fatturato da 340 milioni a 215. Nell'ultimo anno, dicono i ricercatori, hanno sicuramente pesato le manifestazioni studentesche contro la riforma, le proteste dei professori contro i tagli, ma da soli non spiegano la riduzione. Nel 1992, una circolare del ministro Iervolino stabilì che le «visite d'istruzione» dovevano essere a carico delle scuole non delle famiglie. Così non è stato. «Da tempo i professori non hanno più la diaria e non hanno pagate le trasferte, ma questo non è la vera causa del calo. Il motivo principale è il forte aumento dei costi. È un peccato, così si perde un'esperienza che può essere ancora formativa», spiega Mario Rusconi, vice presidente dell' Associazione nazionale presidi. «Sono aumentati i prezzi della benzina, degli hotel, degli autisti. Alcune scuole creano un fondo per sovvenzionare gli studenti che non possono pagare. A volte sono anche gli insegnanti, tanto bistrattati, a dare i soldi per chi non se lo può permettere». Alle classi superiori il costo di una gita si aggira intorno alle 400 euro, una cifra significativa che rischia di creare discriminazioni. «È una bella fetta del reddito che può mettere in difficoltà. La gita va salvata ma deve tornare ad essere legata ad una motivazione culturale, al percorso di apprendimento. Non deve essere un viaggio alla moda». Come a volte è diventato, ma non per tutti. «Nel nostro istituto abbiamo un'adesione che non supera mai il 50%, non abbastanza, occorre un'adesione dei due terzi, quindi rinunciamo», dice Leandro Cantoni, preside dell' istituto professionale Cattaneo di Roma. «Accade nei professionali e nei tecnici, meno nei licei». La gita è in crisi ma non solo per i soldi. «Negli anni c'è stata un'involuzione consumistica dei modelli educativi», spiega Benedetto Vertecchi, pedagogo. «L'uscita scolastica è un'esigenza legittima che deve essere organizzata sulla base di un percorso cognitivo, non può diventare un'attività da agenzia turistica». Pochi fondi e molte critiche, così nella scuola si ridefinisce la rotta e il viaggio, se vorrà sopravvivere, dovrà cambiare. «Organizziamo ultimamente scambi culturali», dice il preside Rusconi. «Alcuni studenti sono andati ospiti a San Pietroburgo, ora sono venuti da noi i ragazzi russi. Si risparmia e rimane un'esperienza culturale importante per i ragazzi». Già, i ragazzi. La gita ha accompagnato la vita di generazioni di studenti, per molti è stato il primo viaggio, per tutti occasione di risate, amori e ricordi. Impossibile tornare indietro. «Adesso i contributi scolastici servono per garantire quello che dovrebbe essere la normalità e addio viaggi», dice Sofia della Rete degli Studenti. «Ma partire è importante, rende reale quello che studiamo ed è un'opportunità per stare insieme. Non vogliamo rinunciarci».



“Un’occasione preziosa di conoscenza
a patto che non sia una scampagnata”
ROMA - Carlo Rubinacci, ex direttore generale del ministero dell'Istruzione, le gite scolastiche possono ancora avere un ruolo, un' importanza?
«Sono uno strumento utilissimo per far conoscere contesti sociali e culturali diversi, può essere l'occasione in cui il sapere teorico diventa conoscenza. Capiamoci, non deve essere una scampagnata, tutto dipende da come si fa. Deve essere un momento dell'attività didattica e anche oggetto di una verifica finale, bisogna vedere che cosa ha prodotto. Come strumento è sempre valido, dipende dalle condizioni in cui si svolge».
I costi alti però creano discriminazioni.
«I costi sono diventati un problema. Bisogna avere l'accortezza che tutti possano partecipare, non deve diventare un fattore di discriminazione. Gli istituti devono creare un fondo comune da cui si possa attingere. Oggi per una famiglia trovare 300/400 euro non è facile, in parte le gite dovrebbero essere a carico del bilancio dell'istituto».
Molti professori non vogliono più partecipare, non hanno nessuna retribuzione e molte responsabilità.
 «Stare con i ragazzi può essere complicato fuori ma anche dentro, in classe. Anche per le gite si richiede un alto livello di professionalità».

domenica 30 ottobre 2011

L'ora legale

POSTATO dal prof d'italiano

Ti sei ricordato di mettere indietro le lancette dell'orologio e di tornare all'ora solare?
Sai che cos'è l'ora legale?

L'ora legale è la convenzione di avanzare di un'ora le lancette degli orologi durante il periodo estivo, in modo da prolungare la luce solare nel tardo pomeriggio a scapito del primo mattino.
Nei paesi dell'Unione Europea l'ora legale inizia l'ultima domenica di marzo e termina l'ultima domenica di ottobre. Alle stesse convenzioni si attiene la Svizzera, pur non facendo parte dell'unione.
Quando l'orario coincide con quello del fuso orario di riferimento prende il nome di «ora solare» o «ora civile convenzionale». In alcuni paesi l'ora solare è di fatto sospesa, e si adotta l'ora legale per tutto l'anno.
Si noti che in molti paesi si utilizza una terminologia più diretta per designare l'ora legale, ovvero «orario estivo». Una denominazione più accurata, che imita quella americana, è quella di «orario di risparmio della luce diurna» («daylight saving time»), che tralascia il riferimento alla stagione estiva.



Per sapere il resto, vai all'articolo di Wikipedia: puoi scoprire qualcosa di interessante:
http://it.wikipedia.org/wiki/Ora_legale

Il surriscaldamento della Terra

POSTATO (e adattato dalla pubblicazione su il Corriere della Sera del 28 ottobre 2011) dal prof d’italiano


Per la prossima riunione a Durban le ambizioni sono minime
Perché è fallito il Patto sul clima:
«Troppo costoso»
Doveva ridurre il surriscaldamento globale. Dietrofront degli Stati per carenza di fondi

Di Danilo Taino

L'era di Kyoto (*) è alla fine. Non è stata un successo. Il Protocollo ratificato da 191 Paesi (ma non dagli Stati Uniti) doveva agire da moltiplicatore degli sforzi per limitare il surriscaldamento del pianeta: per qualche tempo c'è riuscito ma non nella misura voluta. Ora sta lentamente spegnendosi. In un rapporto pubblicato giovedì dalle Nazioni Unite e dal World Resources Institute di Washington si legge che «le emissioni (di gas serra, ndr) stanno ancora crescendo e gli impegni per azioni di riduzione future, in aggregato, sono inferiori a quanto la scienza suggerisce essere necessari».
Soprattutto, succede che la crisi finanziaria mondiale ha bloccato - anzi, ha fatto retrocedere - molti degli sforzi che si stavano facendo per ridurre le emissioni di gas a effetto serra: nessuno vuole più prendere impegni, costa troppo. Stati Uniti, Canada, Giappone e Russia hanno già comunicato che non firmeranno alcun nuovo accordo vincolante quando il regime attuale di Kyoto cesserà, a fine 2012; i Paesi emergenti, guidati da Cina e India, hanno confermato, se ce n'era bisogno, che non penderanno impegni se non volontari; persino l'Unione europea, finora all'avanguardia sulle questioni del clima, sta facendo passi indietro.
DURBAN - Alla fine di novembre si terrà a Durban, Sudafrica, la riunione annuale della Convenzione sul cambiamento del clima. È di grande rilievo perché in teoria dovrebbe chiarire cosa succederà quando, alla fine dell'anno prossimo, gli impegni presi da molti Paesi sulla base del Protocollo di Kyoto non saranno più vincolanti. Non c'è però alcuna speranza che si possa arrivare a un Kyoto Due, cioè a un nuovo protocollo sulla base del quale un certo numero di Paesi, in particolare quelli ricchi, si assumano l'obbligo di ridurre le proprie emissioni di quantità predeterminate. Molti funzionari dell'Onu, sotto la cui egida la Convenzione si tiene, ritengono che Durban sarà «successo o rottura». […]
SOLDI - Il problema, ovviamente, è il denaro. In piena crisi finanziaria e con i rischi di una nuova recessione all'orizzonte, i governi non sono disposti a impegnare risorse per la riduzione delle emissioni, nemmeno a costringere le proprie industrie ad affrontare i costi che comporta emettere meno gas serra. Che gli Stati Uniti non aderiscano a un Kyoto Due non stupisce, nonostante le promesse del presidente Obama di cambiare passo sul tema del clima. Ma il ritiro dal regime di Kyoto di Giappone e Canada, in passato difensori del Protocollo, è una novità. Ancora più sorprendente è quanto ha dichiarato nei giorni scorsi Jos Delbeke, direttore generale della Climate Action della UE.  «Gli europei - ha detto - si pronunceranno politicamente a favore del Protocollo di Kyoto» ma non si legheranno ad alcun nuovo patto a meno che «altre parti non entrino nel club». L'Europa, insomma, non vuole essere la sola a tagliare le emissioni e a gravare di costi le sue imprese rendendole meno competitive in una fase come questa. Secondo stime della Commissione di Bruxelles, l'obiettivo di ridurre entro il 2020 le emissioni di gas serra del 20% rispetto al livello del 1990 già costa alla Ue quasi 50 miliardi l'anno. In più, alcuni grandi gruppi industriali minacciano di delocalizzare le produzioni se i costi continueranno a crescere.
CRISI - Le preoccupazioni per il cambiamento del clima, insomma, nel pieno della crisi sono crollate, nella lista delle priorità. Anche un impegno che era stato preso un anno fa alla conferenza di Cancún, in Messico, rimane disatteso: si tratta di creare un fondo, il Green Climate Fund, che dal 2020 dovrebbe dare cento miliardi di dollari l'anno ai Paesi poveri per combattere l'aumento delle temperature e i suoi effetti; finora, però, non si è fatto alcun passo avanti sul dove trovare il denaro e sul come poi gestirlo. «Questo non è il periodo migliore per parlare di finanza, perché tutti i Paesi sviluppati sono in una crisi finanziaria», ammette Christiana Figueres, la segretaria esecutiva della Unfccc, la Convenzione dell’Onu sui cambiamenti climatici. La signora Figueres deve fare la faccia ottimista in vista della riunione di Durban e dice di puntare a «un'ampia cornice» di accordi che combini un secondo round di Kyoto accettato dai Paesi ricchi con alcuni impegni che dovrebbero prendere quelli poveri. Ma è oltremodo cosciente delle difficoltà economiche che gran parte del mondo sta vivendo.
RISCALDAMENTO - Il guaio è che il pianeta continua, imperterrito e noncurante della crisi, a scaldarsi troppo. Una nuova analisi, condotta da un gruppo di scienziati californiani - Berkeley Earth Surface Temperature - ha analizzato i dati di un miliardo e seicento milioni di rapporti sulle temperature terrestri e ha stabilito, sembra in misura piuttosto solida, che negli scorsi cinquant'anni la superficie del pianeta ha visto aumentare la sua temperatura di 0,911 gradi centigradi. È quasi la metà dei due gradi di surriscaldamento che - dicono molti scienziati - provocherebbero le peggiori catastrofi, dalle inondazioni alle siccità; ed è una misurazione che potrebbe togliere ogni dubbio sulla realtà dell'innalzamento globale della temperatura. Che non è detto sia del tutto dovuto all'attività umana. Ma che consiglia comunque di cercare una nuova «strategia del clima», probabilmente non più fondata sul porre limiti astratti alle emissioni ma sulla ricerca e magari su una carbon tax globale. Per chiudere, senza fuggire, l'era di Kyoto.


(*) Il protocollo di Kyōto è un trattato internazionale in materia ambientale riguardante il riscaldamento globale sottoscritto nella città giapponese di Kyōto l'11 dicembre 1997 da più di 160 paesi in occasione della Conferenza COP3 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). Il trattato è entrato in vigore il 16 febbraio 2005, dopo la ratifica anche da parte della Russia.

Le 5 leggi della stupidità umana

POSTATO dal prof d’italiano

Nel 1976 l’economista Carlo M. Cipolla pubblicò un libro intitolato “Allegro ma non troppo, ovvero Le leggi fondamentali della stupidità umana”. Ora questo libro è stato ripubblicato (nella versione originale, che Cipolla scrisse in inglese) dalla Casa Editrice Il Mulino.



Da questo libro estraggo le 5 leggi fondamentali della stupidità.











Se siete interessati ad un approfondimento, potete leggere qualcosa sul sito seguente:

Infine, poiché quasi tutti noi riconosciamo la stupidità degli automobilisti, direi che questo cartello stradale potrebbe essere messo ovunque.


venerdì 28 ottobre 2011

Bambini e stress

POSTATO dal prof d’italiano

Leggi questo articolo apparso su la Repubblica il 27 ottobre 2011 e verifica se sei stressato anche tu!

Quei bimbi stressati già a quattro anni
ecco come liberarli dall'ansia di successo
Di Anais Ginori
PARIGI - Il mal di pancia prima di andare a scuola, lo scatto d'ira all'uscita dalla partita o ancora la febbre il giorno del compleanno. Il malessere segreto dei nostri figli si nasconde forse dietro a piccoli sintomi, a volte banali. «Abbiamo caricato i bambini di troppe aspettative. Sono condannati al successo», spiega il neuropsichiatra Boris Cyrulnik, lanciando un grido d'allarme nel suo nuovo saggio "La Vergogna", che ha già provocato un acceso dibattito in Francia e ora è pubblicato anche in Italia. Un traguardo dopo l'altro, senza potersi permettere di fallire. A scuola, nello sport, nelle discipline artistiche come nelle relazioni con gli amichetti, i piccoli sperimentano spesso la paura di non essere all'altezza.
Secondo uno studio tedesco ripreso da Der Spiegel, la competizione tra bambini non è mai stata così forte: almeno il 50% di loro sperimenta lo stress tipico degli adulti, quell'ansia da prestazione che di solito esiste solo nel mondo del lavoro e può portare a fenomeni come il burn-out, l'annientamento emotivo.
«Nelle società occidentali, c'è una spasmodica ricerca del risultato, il culto della performance in ogni campo: intellettuale, fisico, sociale», continua Cyrulnik famoso per i suoi studi sulla resilienza dei bambini traumatizzati nelle guerre. «Una mente infantile- aggiunge - è molto più sensibile all'approvazione o alle critiche». I desideri dei genitori o di altri adulti vengono introiettati e, se non vengono realizzati, provocano un sentimento di vergogna. Insieme ad altri esperti, Cyrulnik si batte per l'abolizione dei voti e delle pagelle a scuola.
«Si tratta di un'ossessione che tende a discriminare e penalizzare ancora di più alcuni alunni», ha scritto il neuropsichiatra nell'appello al governo insieme allo scrittore Daniel Pennac e al socialista Michel Rocard. «Il voto non riassume da solo il progresso didattico mentre indebolisce la fiducia in se stessi che è necessaria per il successo a scuola». Altri specialisti francesi, come la psicologa Marie Bérubé, suggeriscono di alleggerire le giornate dei bambini. Troppe ore di lezioni in classe, troppe attività pomeridiane, tra sport, musica, teatro e altre discipline: il tempo libero quasi non esiste. «Invece di farli divertire o rilassare - racconta Bérubé - queste attività sono diventate ulteriori occasioni di stress».
L'idea di un'educazione meno competitiva è diametralmente opposta a quella lanciata qualche mese fa negli Stati Uniti da Amy Chua, la portavoce delle "mamme tigri" che propone di allenare i bambini come piccoli atleti, comunque vincenti e prestanti. «I genitori dovrebbero invece sviluppare l'empatia - ribatte Cyrulnik - . Accettare e rispettare i loro figli per come sono, senza cercare di trasformarli a immagine e somiglianza dei propri sogni». Il sentimento di vergogna, spiega lo psichiatra, comincia ad apparire intorno ai quattro anni, proprio insieme all'empatia, quando il bambino esce dal suo universo mentale per rappresentarsi dall'esterno, come lo vedono gli altri. Il rischio è più elevato tra i maschi, che sin da piccoli sono immersi in una cultura che li vuole forti e infallibili. «Ma non è solo una responsabilità dei genitori. Pesano anche i miti, la cultura e le aspettative sociali, che tra l'altro cambiano a seconda delle epoche», continua il neuropsichiatra con la speranza che, grazie all'attuale crisi, l'imperante "condanna al successo" passerà. Il suo consiglio è accompagnare il naturale sviluppo infantile, non cercare di dominarlo ad ogni costo. «La vergogna è normale e salutare per venti minuti - conclude Cyrulnik - molto meno se dura vent'anni».




Gli effetti del carico di aspettative si pagheranno anche da adolescenti

ROMA - Professor Gustavo Pietropolli Charmet, psichiatra, è vero che i bambini sperimentano lo stress degli adulti?
«I bambini crescono in un mondo dove sono abituati a sentirsi unici, preziosi, necessari, dove sono valorizzati al massimo. Questa educazione consente di realizzare diversi apprendimenti e non tradisce la natura di un piccolo che ama stare con gli altri e primeggiare. I problemi nascono quando le proiezioni narcisistiche dei genitori sono troppe e s' incontrano con quelle dell' ambiente sociale, allora i bambini possono pagare un prezzo, essere stressati e soccombere se il successo atteso non si avvera».
 Soccombere, in che modo?
«Sviluppare inibizioni, frustrazioni, sentimenti di vergogna, ritirarsi in se stessi. Con conseguenze nell' adolescenza: quando si può essere attratti dall' uso di droghe che potenziano le prestazioni o spinti verso l' anoressia perché non ci si sente adeguati rispetto ai modelli di bellezza. Fino a degenerazioni come la creazione di bande, del branco per affermarsi».
Cosa succede nella vita quotidiana?
«Vediamo bambini precocissimi con una pubertà psichica che precede quella fisica, se si entra in una elementare sembra di essere in una media: più che bambini ci sono maschi e femmine piccolissimi con i loro gruppi e riti. Il rischio è un'infanzia rubata».

Il cervello funziona meglio dopo i 55 anni

POSTATO dal prof d'italiano

Questo articolo (apparso su la Repubblica il 20 ottobre 2011) è un balsamo per i prof di questa classe, i quali hanno in media 52,8 anni;
tra un po' saremo tutti super-funzionanti!!!

Sorpresa, il cervello migliora dopo i 55 anni
Di Enrico Franceschini
LONDRA - Buone notizie per chi ha 55 anni o più: chi va piano, va sano e va lontano. O meglio, poiché i 55enni odierni sono tutt' altro che lenti, non necessariamente chi corre più veloce vince la gara. Affermazioni del genere possono far venire in mente la celebre favola di Esopo sulla tartaruga e la lepre. Ma adesso trovano una conferma scientifica: il cervello degli "over 55" funziona in modo più efficiente di quello dei giovani. Non è in discussione l' intelligenza, bensì l' uso che facciamo della nostra materia grigia: e il verdetto sembra riflettere il luogo comune secondo cui, invecchiando, si acquista maggiore esperienza e si diventa più saggi. A sostenerlo è una ricerca dell' Institute of Geriatrics dell' università di Montreal, in Canada. Gli studiosi hanno messo a confronto attraverso una serie di test due gruppi di volontari, uno composto da persone tra i 55 e i 75 anni, l' altro da uomini e donne molto più giovani. Analizzando le reazioni cerebrali con uno scanner, gli scienziati canadesi hanno scoperto che l' attività del cervello reagisce in modo radicalmente differente a seconda dell' età: davanti ad un errore, i più giovani attivano immediatamente certe parti del cervello per decidere come aggiustare la loro strategia e cosa fare alla mossa successiva; mentre i più vecchi prendono tempo, attivando quelle parti del cervello solo dopo averci ragionato sopra un po' . In altre parole, senza spaventarsi per uno sbaglio, conservando energia e valutando bene tutti i fattori, prima di procedere. Benché entrambi i gruppi abbiano concluso l' esperimento praticamente con lo stesso risultato, ovvero con lo stesso numero di errori, e nonostante il gruppo più anziano abbia impiegato più tempo a completarlo, gli autori della ricerca ritengono che ciò dimostri un migliore utilizzo delle risorse intellettuali di cui disponiamo. I più giovani possono dare l' impressione di essere più svegli, perché rispondono a una domanda o a un problema più rapidamente (la lepre di Esopo). Ma questo può essere un segno di inesperienza più che di saggezza, e la reazione dei più anziani indica maggiore maturità e riflessione (la tartaruga). La vittoria, insomma, dell' esperienza sulla giovinezza. «Il cervello più vecchio sa che non si ottiene niente agendo d' impulso», osserva il professor Oury Monchi, che ha guidato la ricerca. «E ora abbiamo una prova neurobiologica che l' esperienza cresce con il passare degli anni, che più il cervello invecchia, più impara a meglio amministrare le sue risorse. Essere capaci di correre più in fretta non sempre aiuta a vincere la corsa, per vincere devi soprattutto sapere come usare al meglio le tue capacità. La favola della tartaruga e della lepre - conclude lo studioso - evoca le caratteristiche positive dell' invecchiamento, ricordandoci che un cervello più vecchio ha maggiore fiducia in se stesso ed è meno spaventato dalle critiche». Prima che i 55enni festeggino, tuttavia, conviene ricordare che Esopo scrisse anche la favola della volpe e dell' uva: quando non riesci a prendere qualcosa - l' eterna giovinezza, per esempio - fingi che non sia poi così importante.



Per chi non se la ricorda, ecco qui la favola di Esopo “La tartaruga e la lepre”:

La tartaruga e la lepre, che litigavano su chi di loro fosse più veloce, fissarono un giorno e un luogo per una gara. Dopo la partenza la lepre, che per la sua innata velocità non si preoccupava della corsa, si sdraiò a dormire lungo la strada. La tartaruga invece, consapevole della propria lentezza, non smise mai di correre e così, superando l’avversaria addormentata, ottenne la palma della vittoria.
La favola dimostra che spesso l’impegno vince le doti naturali trascurate.

mercoledì 26 ottobre 2011

5 poesie di Andrea Zanzotto

POSTATO dal prof d’italiano

Nato a Pieve di Soligo il 10 ottobre 1921 e morto a Conegliano il 18 ottobre 2011, Andrea Zanzotto è uno dei poeti contemporanei italiani più conosciuti. Per chi non l’hai mai letto (immagino la maggior parte dei miei alunni), sarà una sorpresa accostarsi alla sua poesia. Ne ho scelte 5 tra le più facili e credo che ancora susciteranno parecchio scalpore; ma provate ad abbandonarvi ad esse, leggetele più volte mentalmente o ad alta voce, cercando di afferrare il suono delle parole e il loro significato: potrebbe essere un’esperienza interessante.



FIUME ALL’ALBA

Fiume all’alba
acqua infeconda tenebrosa e lieve
non rapirmi la vista
non le cose che temo
e per cui vivo

Acqua inconsistente acqua incompiuta
che odori di larva e trapassi
che odori di menta e già t’ignoro
acqua lucciola inquieta ai miei piedi

da digitate logge
da fiori troppo amati ti disancori
t’inclini e voli
oltre il Montello e il caro acerbo volto
perch’io dispero della primavera.

(da “Vocativo” – 1949-1956)

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NAUTICA CELESTE

Vorrei renderti visita
nei tuoi regni longinqui
o tu che sempre
fida ritorni alla mia stanza
dai cieli, luna,
e, siccom’io, sai splendere
unicamente dell’altrui speranza.

(da “IX ecloghe” – 1957-1960)
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AL MONDO

Mondo, sii, e buono;
esisti buonamente,
fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
ed ecco che io ribaltavo eludevo
e ogni inclusione era fattiva
non meno che ogni esclusione;
su bravo, esisti,
non accartocciarti in te stesso in me stesso

Io pensavo che il mondo così concepito
con questo super-cadere super-morire
il mondo così fatturato
fosse soltanto un io male sbozzolato
fossi io indigesto male fantasticante
male fantasticato mal pagato
e non tu, bello, non tu “santo” e “santificato”
un po’ più in là, da lato, da lato

Fa’ di (ex-de-ob etc.)-sistere
e oltre tutte le preposizioni note e ignote,
abbi qualche chance,
fa’ buonamente un po’;
il congegno abbia gioco.
Su, bello, su.

                Su, münchhausen.

(da “La beltà” 1961-1967)

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LA PACE DI OLIVA

E nel boccio della mattina quasi estiva
egli non ricorda più.
Non ricorda più la data
della pace di Oliva.
Invano fruga l’è il sarà il fu.
Eh     dopo     mi pare
que     e in      vvv
dunque, nel Riss nel Mindel o nel Würm?
O durante un pluviale?
Sottoporre il docente a un test di accertamento.
Segnalarlo al provveditore.
      “Voi là, in fondo. Fermi!
       La smettete?” Smettiamo
       riponiamo smorziamo
       specularmente fermi nel mattutino dolcore
       in un portento ~ in un
       equilibrio del terrore.

(da “Pasque” 1968-1973)

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DA “ANDAR A CUCIRE”

                                 A la Maria Carpèla

              (che la ‘ndéa a pontar par le case)
Si no ‘l te fèsse ‘n paradiso
aposta par ti, anca si paradisi no ghe n’è,
al saràe da méter a l’inferno
l’istesso Padreterno –
la saràe da méter a l’inferno
tuta, tuta quanta “la realtà”,
si par ti no la fésse ‘n paradiso
pien de bontà come la tó bontà,
gnentaltro che ‘l paradiso
come che ti tu l’à pensà.

A Maria Carpel (che andava a cucire presso le famiglie) Se non ti facesse un paradiso / apposta per te, anche se paradisi non ce ne sono, / sarebbe da mettere all’inferno / lo stesso Padre Eterno - / sarebbe da mettere all’inferno / tutta, tutta quanta la realtà, / se per te non facesse un paradiso / pieno di bontà come la tua bontà, / niente altro che il paradiso / come tu l’hai pensato.

(da “Idioma” 1975-1986)

Marco Simoncelli

POSTATO dal prof d'italiano

Sulla morte di Marco Simoncelli ho trovato su la Repubblica di martedì 25 ottobre 2011 questi 2 diversi interventi:

QUEI RAGAZZI DELLO SPORT UNITI DAL LUTTO
Di Emanuela Audisio
Colpisce che tutti siano rimasti c o l p i t i d a l l a morte di Marco. Il basket, il calcio, il volley, la scherma, lo sci, tanti campioni hanno voluto ricordarlo. Dargli una carezza da lontano. Non solo il mondo delle due ruote. Da Gattuso a Vezzali, da Gallinari a Moelgg a Tagliariol a Schumacher. Lo ha pianto anche la Spagna, con le parole di Iniesta. I campionati si sono fermati per un minuto. E in quel minuto c' era una partecipazione sincera, non d' obbligo. In molti lo conoscevano e a tutti pareva un amico, anche a chi lo aveva solo sfiorato. Lo sport metabolizza in fretta, non vuole soffrire, è sempre molto concentrato sui propri muscoli, sul risultato, sull' impegno imminente. Si rispetta l' altro, ma non si ha quasi mai tempo per l' altro. C' è la partita, la classifica, l' allenamento da non perdere. Però i calciatori nello spogliatoio domenica mattina avevano una faccia buia. Non volevano rassegnarsi. Però Danilo Gallinari, gigante del basket, continuava a dire: «Aveva la mia età, era come me. Non capisco, non accetto». Improvvisamente tutti si sono sentiti fragili, nella loro gloria, nella loro quotidianità. Simoncelli nello strazio è diventato tutti. In tanti forse piangendo per lui hanno pianto anche per se stessi. Per quello che erano all' inizio. Per quell' anima che non hanno più o che ormai è in forma ridotta, small size. Marco ancora sognava, era naif, spingeva per arrivare, la sera la passava con i meccanici, restava attaccato alla sua passione, ringraziava i genitori per avergli regalato con i sacrifici quel sogno. Non si sentiva diverso, ma uguale a tutti quelli che amano correre e che ci provano. Lo sport sa riconoscere nello specchio la propria gioventù e quando si spezza piange non solo la sua bellezza rovinata, ma la voglia genuina di non farla mai finita.


BASTA CON LA VELOCITÀ FERMATE I GRAN PREMI
Di Giovanni Valentini
Nella mitologia della velocità, per cui immoliamo quotidianamente le nostre frettolose esistenze come sull' altare di una divinità pagana, forse si può commemorare la morte in pista del pilota Marco Simoncelli con un' elementare domanda:a che cosa servono, al giorno d' oggi, le gare di motociclismo e di automobilismo? Una volta si diceva che servivano a far evolvere la tecnologia, anche sul piano del comfort e della sicurezza, a vantaggio di tutti: dai freni a disco alla "cellula di sopravvivenza", dal cambio automatico alle appendici aerodinamiche eccetera eccetera. Ma regge ancora una risposta del genere di fronte alle immagini atroci del giovane centauro, caduto in curva e stritolato dalle ruote dei suoi incolpevoli rivali? Nell' era della virtualità, in cui ormai qualsiasi situazione può essere simulata e riprodotta perfettamente al computer, non c' è più ragione di rischiare la vita in una gara di velocità, se non per alimentare lo show business delle corse, dal vivo o in tv, con relativo sfruttamento commerciale e pubblicitario. Se poi fosse accertato che Simoncelli è stato tradito proprio dalla tecnologia, e in particolare dal sistema elettronico di controllo della trazione, questo sarebbe davvero un cinico e beffardo paradosso. O magari un ammonimento contro il "complesso di Icaro" che perseguita l' umanità dalle origini: l' illusione di poter sfidare impunemente le leggi della natura e della ragione per dominare il mondo. Ma, nella morte di Simoncelli, c' è un altro aspetto che impone una riflessione generale nella società della comunicazione in cui tutti viviamo. Qual è il messaggio che, attraverso l' amplificazione mediatica della diretta tv, diffondono le corse motociclistiche e automobilistiche? Qual è il modello di comportamento che trasmettono, soprattutto ai più giovani? Qual è, insomma, la "lezione" che - seppure in modo subliminale - impartiscono? Bandita dai limiti stradali e autostradali, la velocità in pista torna a essere - appunto - un mito collettivo. Un tabù da violare. Uno "stile di vita", tanto pericoloso quanto più suggestivo e attraente. La riduzione dei consumi, indotta innanzitutto dall' aumento del prezzo dei carburanti e promossa responsabilmente dalle stesse case produttrici di auto o di moto, viene sacrificata in funzione della "sgommata", dello scatto o dell' accelerata più o meno bruciante. E, insieme al risparmio energetico, passa in secondo piano anche la lotta all' inquinamento ambientale. Ma, ciò che è ancora più grave, sotto l' influsso della narrazione agonistica l' abilità nella guida tende fatalmente a degenerare nell' imprudenza, nell' azzardo o addirittura nella scorrettezza e nella violazione sistematica del codice stradale. Il sorpasso a destra, la frenata al limite, la manovra spericolata, sono modelli negativi esaltati e legittimati dalle riprese televisive negli autodromi di tutto il mondo. Una scuola-guida diseducativa e funesta, di cui molti di noi genitori siamo stati talvolta "cattivi maestri". Lo show business delle corse contribuisce così ad abbassare o azzerare quella "coscienza del limite" che al giorno d' oggi dovrebbe presiedere ai nostri comportamenti quotidiani, individuali e di massa. Limite allo sviluppo, innanzitutto. E quindi, limite al consumo, all' opulenza, allo spreco e infine anche alla velocità, secondo quella che viene definita la nuova "etica dei consumi". A volte, si ha quasi l' impressione invece che il genere umano - forse per esorcizzare la paura esistenziale - sia tutto proteso ad accelerare la propria fine, a distruggere le risorse ambientali, a compromettere la sua stessa sopravvivenza. Corriamo come matti, dalla mattina alla sera, nell' ansia affannosa di arrivare a chissà quale provvisorio e precario traguardo. Pensiamo, parliamo e comunichiamo sempre più velocemente; camminiamo e viaggiamo; mangiamo, dormiamo e facciamo perfino l' amore sempre più in fretta. Ormai, come scrive il filosofo Zygmunt Bauman nel suo saggio più recente, viviamo "vite che non possiamo permetterci". Ma, in memoria di Simoncelli, dobbiamo dire che ci sono anche morti che non possiamo più permetterci. E la sua, a 24 anni, su quella pista maledetta della Malesia, è purtroppo una di queste.

Gheddafi e Simoncelli

POSTATO dal prof d’italiano

Questa mattina si è svolta in classe un’animata discussione su quale delle due morti – quella di Gheddafi o quella di Simoncelli – sia più “importante”. Poiché, purtroppo, le discussioni in classe avvengono con una certa confusione e un “inquinamento sonoro” piuttosto elevato (quasi come avviene nelle discussioni politiche in tivù, per cui ognuno fa a gara a chi urla più forte), con il risultato che forse non si capiscono appieno le opinioni dei vari partecipanti, approfitto di questo spazio che ci stiamo creando per esporre con calma il mio punto di vista, invitando chi vuole a intervenire con la propria opinione.

Un gruppo di libici esulta per la fine di Gheddafi


La sequenza del tragico incidente che è costato la vita a Marco Simoncelli

Premesso che

- ogni morte è un fatto spiacevole, per chi muore e per i suoi cari (parenti, amici, a volte semplici conoscenti)
- la morte di un personaggio pubblico conosciuto interessa un gran numero di persone, ancor più se la morte accade in circostanze tragiche
- la morte di un giovane è sicuramente più brutta della morte di un adulto o di un vecchio

premesso questo, direi che la morte dei due personaggi in discussione va valutata, anche e soprattutto, sulle conseguenze che esse avranno nel futuro.
A me sembra che la morte di Simoncelli non avrà particolari conseguenze, al di là di qualche discussione che sentiremo sui giornali o in televisione per qualche giorno ancora. Molto spesso, inoltre, queste discussioni saranno piuttosto ipocrite, perché si dirà di sicuro che così le cose non vanno bene, che bisogna cambiare le regole delle gare sportive, al fine di evitare il ripetersi di simili tragici incidenti e tanti altri bla bla bla dello stesso tono. Purtroppo chi come me ha una certa età, sa perfettamente che nulla cambierà, che tutto rimarrà così com’è adesso e che altri incidenti accadranno prima o poi. E questo perché lo spettacolo del motociclismo (o di altri sport piuttosto pericolosi) deve continuare e nessuno si appassionerebbe nel vedere una gara di motociclismo a 50 km/h! E questo lo sanno anche i motociclisti, che per diventare campioni sfidano la morte tutti i giorni.(Tra parentesi, io mi chiedo se sia una cosa sensata giocarsi la vita o rischiare di farlo, solo per essere i migliori).
La morte di Gheddafi ha come conseguenza immediata che un popolo intero sta esultando in questi giorni, perché si è liberato di un tiranno, che per più di quarant’anni lo ha oppresso. Io ricordo molto bene cosa mi dicevano i miei genitori, quando seppero della morte di Mussolini: un senso di gioia enorme, la certezza di aver messo fine a una pagina oscura della loro vita, la speranza che da quel momento le cose non potevano che migliorare per tutti. Io penso che i libici oggi si sentano così: magari (spero di no) nei prossimi anni le cose non prenderanno il corso che tutti loro si augurano, però di sicuro un brutto periodo è finito e adesso c’è la possibilità di cambiar pagina.
Se noi valutiamo le cose da questo punto di vista, la morte di Gheddafi è sicuramente più importante di quella di Simoncelli, anche se, a guardar bene, il dispiacere dei tifosi per la scomparsa di un campione e la gioia di un popolo per la morte di un tiranno non sono fatti paragonabili; ma questo è un altro discorso.
Certo, se la morte del motociclista servisse davvero a far cambiare il modo di gareggiare in pista, la sua fine diventerebbe importante; ma io sono pessimista e penso, come ho già detto, che non cambierà nulla. Mentre mi auguro veramente che per i libici (e quindi anche per tutti noi) incominci un periodo di libertà e di democrazia, come tanti giovani del mondo arabo vorrebbero.

lunedì 24 ottobre 2011

La calunnia

POSTATO dal prof d’italiano

Qualche giorno fa, discutendo in classe sulle regole da seguire per gestire questo blog, ho proposto di non inserire calunnie. Alcuni ragazzi mi hanno chiesto cosa sono le calunnie e io ho risposto a parole. In realtà avrei voluto rispondere (da appassionato di musica lirica) cantando la celeberrima aria di don Basilio da “Il barbiere di Siviglia” di Gioachino Rossini, che si intitola appunto “La calunnia è un venticello”. Mi sono trattenuto, togliendo così ai ragazzi la possibilità di godere di un’esibizione strepitosa del sottoscritto. Ma siccome non cedo facilmente, approfitto di questo spazio per dire a loro di cosa si tratta.


Rossini (Pesaro, 29 febbraio 1792 - Parigi, 13 novembre 1868)

Nell’opera “Il barbiere di Siviglia” il dottor Bartolo, che è un vecchio rincitrullito e vorrebbe sposare la giovane Rosina, trova nel conte di Almaviva, giovane e ricco, un formidabile rivale. Venuto a sapere che il conte è a Siviglia e potrebbe rapire Rosina, Bartolo non sa che pesci prendere e parlando con il maestro di musica della ragazza, don Basilio, è questi a suggerirgli che potrebbe funzionare, per togliere di mezzo il conte, una bella calunnia. Che cos’è una calunnia? Don Basilio lo spiega così:

«La calunnia è un venticello,
Un'auretta assai gentile
Che insensibile, sottile,
Leggermente, dolcemente
Incomincia a sussurrar.
Piano piano, terra terra,
Sottovoce, sibilando,
Va scorrendo, va ronzando;
Nelle orecchie della gente
S'introduce destramente,
E le teste ed i cervelli
Fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
Lo schiamazzo va crescendo,
Prende forza a poco a poco,
Vola già di loco in loco;
Sembra il tuono, la tempesta
Che nel sen della foresta
Va fischiando, brontolando,
E ti fa d'orror gelar.
Alla fin trabocca e scoppia,
Si propaga, si raddoppia
E produce un'esplosione
Come un colpo di cannone,
Un tremuoto, un temporale,
Che fa l'aria rimbombar.
E il meschino calunniato,
Avvilito, calpestato,
Sotto il pubblico flagello
Per gran sorte va a crepar

Se volete sentire quest’aria, cliccate sul link sottostante: ne sentirete l’interpretazione di Nicolai Ghiaurov a Vienna nel 1979

Breve storia della camera da letto

POSTATO dal prof d'italiano

Ottimo articolo su un aspetto della vita a cui non si pensa molto. E' stato pubblicato da la Repubblica il 22 ottobre 2011.
Il disegno è di Anna Godeassi
e noi lo pubblichiamo senza averne chiesto l'autorizzazione
(se l'autrice non vuole, ce lo dica e noi lo toglieremo; se no, mille grazie)

BREVE STORIA DELLA CAMERA DA LETTO
Di Bill Bryson
La camera da letto è uno strano posto. Non esiste altro luogo in tutta la casa in cui passiamo più tempo facendo di meno, e facendolo per lo più in silenzio e senza averne coscienza, eppure è la camera da letto che fa da sfondo a molte delle più profonde e persistenti infelicità dell' esistenza. Se siete in punto di morte o malati, esausti, sessualmente frustrati, in lacrime, in preda all' ansia, troppo depressi per affrontare il mondo o comunque privi di serenità e gioia, la camera da letto è il luogo in cui sarà più probabile che vi troviate. È così da secoli, ma, più o meno nello stesso periodo in cui il reverendo Marsham stava costruendo la sua casa, alla vita che si consumava dietro la porta della camera da letto venne ad aggiungersi una dimensione del tutto nuova: la paura. Nessuno aveva mai avuto più ragioni di cui preoccuparsi in uno spazio limitato dei vittoriani nelle loro stanze da letto. I letti stessi diventarono una fonte di particolare inquietudine. Sembrava che non appena si spegnessero le luci anche gli individui più puliti si trasformassero in masse fumanti di tossine. «L' acqua emessa nella respirazione» spiegava Shirley Forster Murphy in Our Homes, and How to Make Them Healthy (1883) «è piena di impurità animali; si condensa sulle pareti interne degli edifici, cola in fetidi rigagnoli e […] penetra nei muri», causando danni di grave ma imprecisata natura. Come mai non provocasse gli stessi danni quando si trovava all' interno del nostro corpo non veniva spiegato, né evidentemente preso in considerazione. Alle coppie sposate si raccomandava l' uso di letti singoli, non solo per evitare il brivido vergognoso di un contatto casuale, ma anche per ridurre la mescolanza di impurità personali. Come spiegava in toni cupi un' autorità medica: «L' aria che circonda il corpo sotto le lenzuola è estremamente impura, impregnata com' è delle sostanze tossiche fuoriuscite dai pori». Fino al quaranta per cento dei decessi in America, stimava un dottore, era causato dall' esposizione cronica all' aria malsana durante il sonno. I letti erano anche una gran fatica. Rivoltare e sprimacciare i materassi era un' incombenza fissa e alquanto pesante. Un tipico materasso di piume conteneva diciotto chili di imbottitura. Cuscini e guanciali ne aggiungevano quasi altrettanti, e tutti i vari pezzi dovevano essere periodicamente svuotati per lasciar respirare le piume, che altrimenti avrebbero cominciato a puzzare. Molte famiglie tenevano branchi di oche, che spennavano per i loro letti forse tre volte all' anno (una cerimonia che doveva essere seccante tanto per la servitù quanto per le oche). Un letto di piume sprimacciato poteva anche avere un aspetto divino, ma presto gli occupanti si ritrovavano sprofondati in una fenditura priva d' aria e dal fondo rigido stretta fra due gonfie colline. Il sostegno era fornito da un reticolo di corde che, quando cominciavano a cedere, potevano essere tese con un' apposita chiavetta, ma non risultavano mai molto comode. I materassi a molle vennero inventati nel 1865, ma nei primi tempi non erano affidabili perché a volte le molle si torcevano, e l' occupante rischiava seriamente di finire infilzato. Un popolare libro americano del diciannovesimo secolo, Goodholme's Cyclopedia, divideva i materassi secondo dieci livelli di comodità. In ordine decrescente, c' erano: piumino, piume, lana, fiocchi di lana, crine, cotone, trucioli di legno, alghe, segatura, paglia. Quando trucioli e segatura figurano fra le dieci migliori imbottiture per un letto, si capisce che si sta parlando di un' età disagevole. I materassi erano ricettacoli non solo di cimici, pulci e tarme, ma anche di topi e ratti. I furtivi fruscii sotto il copriletto erano il triste accompagnamento di molte notti. I bambini che dormivano in letti estraibilia poca distanza dal pavimento avevano più probabilità di familiarizzarsi con la baffuta presenza dei ratti. Nel 1867 un' americana di nome Eliza Ann Summers raccontò di come ogni notte lei e sua sorella andassero a letto cariche di scarpe da lanciare contro i ratti che attraversavano la stanza. Susanna Augusta Fenimore Cooper, figlia di James Fenimore Cooper, diceva di non aver mai dimenticato, o meglio superato, il ricordo dei ratti che zampettavano nel suo lettino d' infanzia. Thomas Tryon, autore nel 1683 di un libro sulla salute e il benessere, si lamentava del fatto che le piume, «luridi e nauseanti escrementi», attirassero le cimici. Al loro posto suggeriva paglia fresca in abbondanza. Pensava anche (a buon diritto) che le piume fossero inquinate dalle feci degli sventurati uccelli a cui venivano strappate. Storicamente l' imbottitura più comune era la paglia, le cui punture attraverso la tela erano un celebre tormento, ma in realtà la gente usava spesso quello che trovava. Nella casa d' infanzia di Abramo Lincoln venivano usati i cartocci essiccati delle pannocchie, un materiale che doveva essere tanto rumoroso quanto scomodo. Se non ci si poteva permettere di usare le piume, la lana o il crine di cavallo erano alternative più economiche, ma tendevano a puzzare. E la lana era spesso infestata dalle tarme. L' unico rimedio sicuro era estrarla e bollirla, un procedimento assai tedioso. Nelle case più povere a volte si appendeva dello sterco di vacca alle colonne del letto nella convinzione che respingesse le tarme. Nei climi caldi, gli insetti estivi che penetravano dalle finestre creavano fastidi e pericoli. A volte venivano drappeggiate reti attorno ai letti, ma sempre con una certa dose di apprensione, perché erano altamente infiammabili. Intorno al 1790 un uomo in visita nel Nord dello stato di New York raccontò di come i suoi anfitrioni, in un tentativo di fumigazione dettato dalle migliori intenzioni, gli avessero riempito la stanza di fumo appena prima che lui si ritirasse, costringendolo a raggiungere il letto a tentoni in una nebbia soffocante. Le zanzariere per le finestre erano state inventate relativamente presto (Jefferson le aveva a Monticello), ma non erano molto diffuse per via del costo. Per gran parte della storia, il letto, in una casa, fu l' oggetto più prezioso. Ai tempi di William Shakespeare, per esempio, un letto a baldacchino decente costava cinque sterline, metà del salario annuo di un maestro di scuola. I letti erano considerati così pregiati che il migliore della casa veniva di solito tenuto al pianterreno, a volte in soggiorno, dove poteva essere mostrato ai visitatori o notato dai passanti attraverso la finestra. In teoria questi letti erano riservati ai visitatori più importanti, ma in pratica venivano usati di rado, una circostanza che ci aiuta a contestualizzare la famosa clausola del testamento di Shakespeare in cui il poeta lasciava alla moglie Anne il secondo miglior letto di casa. La cosa è stata spesso considerata un insulto, mentre in realtà il secondo miglior letto di casa era quasi sicuramente quello matrimoniale, vale a dire quello legato ai ricordi più teneri. Perché Shakespeare lo avesse nominato esplicitamente resta un mistero, visto che in condizioni normali Anne avrebbe ereditato tutti i letti di casa, ma non è affatto detto che si trattasse di un affronto come vorrebbero certe interpretazioni.
(traduzione di Stefano Bortolussi)

Saremo tutti meticci

POSTATO dal prof d'italiano
Un interessante articolo pubblicato su la Repubblica il 17 ottobre 2011 su ciò che sta avvenendo in Inghilterra e, probabilmente ben presto, anche da noi.

Saremo tutti meticci
di Enrico Franceschini
LONDRA – La più grande minoranza della Gran Bretagna non ha un'etnia, una lingua o un colore: ne ha due. Un nuovo metodo di contare le persone di "mixed race", di razza mista, come le definisce il censimento nazionale, ha prodotto un risultato sorprendente: due milioni di cittadini, pari al 3 per cento della popolazione britannica, hanno genitori di nazionalità diverse. E poiché le coppie miste sono ancora più numerose tra i giovani, in particolare nella cosiddetta "Ryan Air generation", la generazione dei nuovi nomadi, espatriati a Londra per studio e per lavoro, si prevede che il numero dei residenti con doppio passaporto raddoppierà entro il 2020, per poi continuare a espandersi sempre più rapidamente. Se il Regno Unito, come spesso accade, anticipa tendenze destinate a coinvolgere tutta l'Europa, significa che il fenomeno si manifesterà e crescerà anche nel resto del continente. Senza quasi accorgercene, mentre politici ancorati al passato fanno battaglie obsolete contro l'immigrazione e per la difesa della propria identità culturale, stiamo diventando tutti meticci. La parola era, e per qualcuno rimane, offensiva, o perlomeno sgradevole, il connotato di una condizione considerata sfavorevole, degradata, se non addirittura inferiore. «Per questo, quando sul censimento trovano la casella "razza mista", molti britannici non sa la sentono di metterci una crocetta sopra», spiega la professoressa Alita Nandi, analista dell' Institute for Social and Economic Research, che ha condotto le nuove ricerche in questo campo per conto della Bbc. Fino a ora, l'etnia di una persona, nelle statistiche ufficiali di questo paese, era determinata da una scelta di opzioni limitate, come "bianco", "nero caraibico", "nero africano". Ma adesso una scuola di pensiero accademica ritiene che, nell'era della globalizzazione, sia più giusto richiedere alla gente di indicare la "nazionalità" dei genitori, per poter stabilire l'appartenenza a un gruppo etnico. È quello che hanno fatto gli esperti del rapporto commissionato dalla Bbc, analizzando dati forniti dall' Household Longitudinal Study, raccolti tra 100 mila persone in 40 mila famiglie. Il risultato è stato che, mentre solo lo 0,88 per cento dei residenti in Gran Bretagna si definivano di "razza mista" nel censimento del 2001, quasi il 2 per cento degli adulti indicano di avere una "discendenza mista" nell'ampio campione esaminato dalla Bbc. La differenza rispetto al censimento è ancora più marcata tra i bambini e ragazzi al di sotto dei 16 anni, il 9 per cento dei quali affermano di avere genitori di etnie differenti. Messe insieme, queste cifre suggeriscono che oggi ci sono più di due milioni di persone nel Regno Unito con un padre e una madre dal passaporto diverso, pari a circa il 3 per cento della popolazione. «Usando questa più ampia definizione di etnicità», commenta la professoressa Nandi, «apprendiamo che gli individui di origine mista sono più numerosi di ogni altra minoranza etnica presente nel nostro paese»: più dei britannici di origine indiana, la seconda minoranza più numerosa con 1 milione e 800 mila persone; più dei neri caraibici, 1 milione e 500 mila; più dei neri africani, dei pachistani, degli arabi, di ogni altro gruppo etnico. Scoprire che i meticci sono la prima minoranza, e il gruppo etnico in procinto di moltiplicarsi più di ogni altro nel prossimo decennio, spinge i ricercatori a chiedersi se ciò può avere effetti socialmente positivi o negativi. E il loro primo riscontro contribuisce a smentire lo stereotipo del meticcio come specie disagiata. Il rapporto rivela infatti che il 79 per cento dei figli di persone con genitori di diversa nazionalità raggiungono gli standard di eccellenza scolastici stabiliti dal ministero dell' istruzione per i bambini di 10 anni: la stessa percentuale dei figli di britannici di origine indiana, mentre i figli di bianchi che ottengono lo stesso livello accademico sono il 77 per cento, quelli di pachistani e bengalesi il 67, quelli dei neri il 65. Nulla lascia pensare che le nuove generazioni di "meticci" non avranno successo nella vita, conclude la Bbc, prevedendo al contrario che una crescente integrazione etnica produrrà una società più armonica, creativa e piena di risorse. Per chi vive a Londra, naturalmente, questa è un po' come la scoperta dell'acqua calda: la capitale britannica ha stabilito il suo primato di "New York d' Europa" proprio attraverso il prodigioso afflusso di immigrati, o espatriati come è più corretto definire quelli che non ci sono venuti con l'idea di restarci permanentemente, negli ultimi due decenni. Gli stranieri a Londra sono ufficialmente il 31 per cento, 2 milioni e 300 mila su una popolazione di quasi 8 milioni, ma sono in realtà assai di più, probabilmente un abitante su due, il 50 per cento, contando tutti quelli che non appaiono nelle statistiche ufficiali, venuti qui per studiare l'inglese, fare un corso, lavorare in un ristorante o in un negozio, trascorrere un gap year o un sabbatico, senza abbandonare la residenza nel Paese di provenienza. Ci sono 71 diverse nazionalità tra i dipendenti della Paribas, una banca della City. Ce ne sono più di cento in molte scuole dei quartieri periferici. E in tutta la metropoli si parlano un totale di 300 lingue e dialetti. Ma non è solo questione di Londra: i trend demografici pronosticano che fra dieci anni, in città e cittadine come Birmingham, Luton, Leeds, i "wasp", white anglo-saxon protestants, insomma i bianchi inglesi, saranno diventati una minoranza. Mettere così tanti stranieri di nazionalità differenti tutti insieme in una capitale come Londra o in una nazione come l'Inghilterra ha una conseguenza facilmente immaginabile: capita sempre più di frequente che due persone con passaporto diverso si innamorino e facciano dei figli. Le barriere religiose e i pregiudizi razziali contano ancora, specialmente nelle comunità più tradizionaliste, ma basta guardarsi intorno, a Londra, per incontrare giovani coppie italo-libanesi, anglo-francesi, ispano- germaniche, franco-caraibiche, e così via. Nelle università, nei luoghi di lavoro, nei caffè della metropoli sul Tamigi, questa generazione di espatriati tra i venti e i trent'anni, che va e viene per l'Europa con i voli a basso costo della Ryan Air, preferisce avere un iPad che l'automobile e vive il nomadismo come un'espressione di libertà anziché come un limite, sta costruendo la società del futuro: «È un mutamento sismico rispetto al passato anche solo recente», dice Mark Boyle, esperto di migrazione della National University in Irlanda, «sono i nuovi nomadi del ventunesimo secolo, tecnologicizzati, irrequieti, senza bagaglio, aperti a ogni esperienza». E, si potrebbe aggiungere, in buona parte meticci. Due etnie, due nazionalità, due lingue, al posto di una sola: è dunque questo il nostro domani, avverte il rapporto della Bbc. Bisognerà solo trovare un nome per definire il concetto, un nome migliore di "razza mista": dove in effetti il termine spiacevole non è tanto "mista", bensì "razza". Come ci insegnò Albert Einstein, nel noto aneddoto sul suo primo ingresso da immigrato negli Stati Uniti, quando alla domanda dell' agente addetto alla dogana, a quale razza appartiene?, pare che l'inventore della teoria della relatività rispose lapidario: «Alla razza umana».





La fine di Gheddafi

POSTATO dal prof d'italiano
Il giorno successivo all'uccisione di Gheddafi un grande giornalista di la Repubblica, Bernardo Valli, ha scritto questo articolo. Anche se è un po' difficile, invito i miei alunni a leggerlo.
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LA FEROCIA E LA CATARSI
Di Bernardo Valli
Con la morte di Muammar Gheddafi finisce un incubo. Non costituiva più una minaccia. Il potere era ormai in mano agli insorti, ma l'idea che la "guida", onnipotente per quarantadue anni, si potesse aggirare ancora nel Paese con i suoi fedeli, armato e pieno di progetti tendenti a mettere a ferro e a fuoco Tripoli, Bengasi, Tobruk, creava angoscia, alimentava le voci sui presunti nascondigli. Si diceva che il raìs vivesse in un bunker, nel cuore della capitale, sotto i piedi dei manifestanti che lo dileggiavano o lo maledicevano. E a un certo punto sarebbe spuntato fuori pronto a punire gli insolenti, che l'avevano applaudito per decenni. Altri lo immaginavano al sicuro, con i suoi petrodollari, in qualche paese africano. O nel deserto. Altri giuravano che l' onore beduino, l' orgoglio tribale, lo costringesse a restare coni suoi. A morire con loro. Avevano ragione. La mancata cattura di Gheddafi ritardava l'installazione definitiva dei nuovi governanti a Tripoli. Alcuni di loro restavano a Bengasi come se la capitale, con Gheddafi in libertà, fosse insicura. E così avanzava a rilento la preparazione del nuovo assetto democratico. Insomma, la guerra di liberazione sembrava incompiuta. Non erano in pochi ad auspicare un processo, che avrebbe avuto il valore di una catarsi. Ma per la fine dei dittatori non ci sono regole precise. Il caso, e se non il destino la ferocia del momento, che non risparmia i liberatori, diventa una sentenza. Spesso non auspicata. O non gradita. Il dopo Gheddafi può comunque cominciare.
UNO DI FAMIGLIA
Muammar Gheddafi? Era uno di famiglia. Perché non ammetterlo? La storia fa questi scherzi, intreccia destini in apparenza senza nulla in comune. Muammar Gheddafi potrebbe figurare in un'italica foto di gruppo. Magari in un angolo, in un vasto panorama di volti, nazionali o non nazionali, più o meno ingialliti dalla storia più rapida del tempo, e con una patina più bizzarra che esotica. I confini della memoria patria sono assai più ampi di quelli geografici. È nato nella provincia di Misurata, quando la Libia era per l'Italia mussoliniana "la quarta sponda", vale a dire parte del territorio regio. Lo sarebbe stata ancora per poco, perché quando Gheddafi venne al mondo, nel 1942, a una ventina di chilometri a Sud di Sirte, le forze corazzate dell' Afrikakorps del feldmaresciallo Erwin Rommel e le unità mobili italiane si rincorrevano nel deserto con l' VIII armata britannica. E quel micidiale su e giù, per migliaia di chilometri disseminati di morti (dei quali leggi ancora i nomi negli struggenti cimiteri di guerra), si sarebbe concluso con la sconfitta italo-tedesca e con la fine del periodo coloniale. Mentre Gheddafi muoveva i primi passi, l' Italia perdeva il più povero pezzo del suo "impero", strappato poco più di trent' anni prima, nel 1911, all' impero ottomano, senza sapere che quel "cassone di sabbia", voluto dal liberale Giovanni Giolitti, progressista e spregiudicato, nascondeva un tesoro: il petrolio che avrebbe fatto dello scalzo beduino di Sirte uno dei più ricchi dittatori del pianeta.
IL DESIDERIO DI RIVALSA
Nell'accampamento dei beduini nomadi dove è cresciuto, Muammar ha subito le conseguenze del Secondo conflitto mondiale quando era finito da un pezzo. Aveva sei anni, giocava con due cugini, ed è esplosa una mina lasciata dagli italiani. I suoi compagni sono stati uccisi e a lui è rimasta una cicatrice sull' avambraccio destro. Era come un marchio che gli ha ricordato per tutta la vita i dominatori coloniali, per i quali nutriva sentimenti ambigui, contrastanti. Da un lato un rancore profondo, un desiderio di rivalsa, attraverso insulti e dispetti, dall' altro una voglia di mantenere rapporti distesi, talvolta amichevoli, spesso tesi a dimostrare il conquistato rango di un uomo potente. Il suo petrolio alimentava gran parte dell' Italia automobilistica e il suo gas faceva funzionare, sempre nella Penisola, una buona porzione dell' industria. E' ancora cosi. Con grande soddisfazione Muammar comperò il dieci per cento delle azioni Fiat, quando Gianni Agnelli a corto di denaro aveva bisogno di aiuto. Il beduino ha teso la mano all' aristocratico industriale piemontese, "re d' Italia senza corona". E la sua vanità ebbe più di quel che sperasse quando Silvio Berlusconi, capo del governo di Roma, gli ha baciato la mano in pubblico, come un vassallo o un giullare.
L' INFANZIA DA PASTORE
Unico figlio maschio, faceva pascolare capre e cammelli, raccoglieva l'orzo e il grano, e aveva il dovere, l'onore, di imparare a leggere il Corano. I genitori non avevano conosciuto quel privilegio. Del Corano conoscevano a memoria molti versetti, ma non sapevano leggerlo. Se uno guarda oggi sui manifesti le ultime facce del raìs consumate, logorate, scavate, deformate da quarantun anni di potere, riesce difficilmente a immaginare l'infanzia pastorale di Muammar, tutta spesa ad accompagnare i pochi animali del deserto di proprietà della famiglia e a imparare, all'ombra di un palmeto, a memoria, le parole di Allah raccolte da Maometto.
MINACCE E BUFFONERIE
Quel ragazzo è diventato con gli anni un personaggio impossibile e inevitabile, capace di imporsi nel mondo. C'è riuscito grazie alla ricchezza del petrolio, ma anche con le sue assurde trovate ideologiche e teologiche, con le sue buffonerie, con le sue minacce, con i suoi discorsi spesso incomprensibili, ed anche con le azioni terroristiche seguite da atti di contrizione. È una vita che suscita stupore; ma suscitano stupore anche i potenti della terra che l'hanno via via bombardato, condannato, messo al bando ma anche accolto con tutti gli onori, e riverito. E che spesso sono stati complici dei suoi delitti, e dei suoi fallimenti.
L' ULTIMA RESISTENZA
Il solo limite che ha saputo imporsi è stato quello di autonominarsi colonnello, dopo il colpo di Stato, ma di non darsi gradi più alti. Non ne aveva bisogno. Era la "guida" e gli bastava. Come rivoluzionario ha sposato tante cause preoccupandosi soprattutto che fossero estremiste. Si è proclamato "luce", faro, del mondo arabo, e poi il padre, il "saggio" dell' Africa, senza mai diventare né l'uno né l'altro. Il finale è stato una tragica beffa, avvenuta nel furore e nel sangue: nel 1969 ha cacciato dal trono Idriss che da emiro della Cirenaica era diventato re della Libia; e nel 2011 lui, Gheddafi, è stato relegato dalla rivoluzione (favorita dalla vicina "primavera araba", in Tunisia e in Egitto) nella sola Tripolitania. È finito ammazzato nella Sirte natale, dove era nato sotto una tenda. Va a suo onore essere morto insieme ai suoi. Non è fuggito con valige di petrodollari. L' orgoglio del beduino ha retto. Gli va riconosciuto. Non è scappato.
STUDIO, PREGHIERE E ORGOGLIO
L' orgoglio gli viene dalla famiglia, dalla tribù, a lungo impegnate durante il primo Novecento nella lotta contro gli occupanti italiani. La politica lo cattura molto presto. Il primo richiamo è quello nazionalista arabo di Gamal Abdel Nasser, che nel '52, con gli "ufficiali liberi" egiziani, ha cacciato re Faruk, e che nel '56 ha nazionalizzato il Canale di Suez, sfidando Francia e Inghilterra, i potenti azionisti del corso d'acqua artificiale che collega il Mediterraneo al Mar Rosso. Un'ammirazione senza limiti per il raìs del Cairo, in quegli anni campione del risveglio arabo, accompagna Gheddafi all'università, dove frequenta la facoltà di legge, e poi all'accademia militare di Bengasi, dove crea un gruppo di "ufficiali liberi unionisti", simili a quelli egiziani. Solo la via militare, pensa, può condurre a una rivoluzione capace di strappare la Libia dall'isolamento in cui la tengono la monarchia, e la forte presenza di forze armate britanniche e americane. Al ritorno dall'accademia militare inglese di Sandhurst, dove ha seguito un corso di sei mesi, impone ai suoi compagni, diventati cospiratori, una vita ascetica nell'attesa di passare all'azione: soltanto studio e preghiere, niente tabacco, alcol e sesso. La disfatta araba del 1967, durante la guerra dei sei giorni con Israele, affretta i piani che nel settembre '69 sfoceranno in un riuscito colpo di stato. Un colpo esemplare.
GLI ITALIANI ESPULSI
In quei mesi Muammar Gheddafi raggiunge una popolarità internazionale. È un giovane ufficiale di 27 anni, fotogenico, asciutto, i lineamenti regolari, sobrio nel linguaggio, che ha abbattuto una monarchia debole e corrotta. E che ha il coraggio di espellere le basi militari americane e britanniche. Un anno dopo espellerà gli italiani rimasti in Libia, ad eccezione di quelli che lavorano per la Fiat e per l'Eni. Le giornaliste straniere che lo intervistano ne sono affascinate. Ma presto affiora la megalomania, che diventerà galoppante. Alla morte di Nasser, nel settembre '70, pensa di potergli succedere come campione del panarabismo. I soldi non gli mancano. Ma il tentativo di creare una federazione, sia pure "elastica", con Egitto e Siria fallisce subito e Gheddafi perde la fiducia dei leader arabi, al punto che nel '73, per la guerra del Kippur, sempre contro Israele, non viene neppure consultato. Per reazione lui lancia allora una specie di rivoluzione culturale, invita a bruciare i libri stranieri, in particolare quelli dei "comunisti ebrei". La sola lettura nobile è il Corano, che deve essere la guida dei patrioti, degli amici della rivoluzione.
IL LIBRO VERDE E LA JAMAHIRIYA
Di fronte all'opposizione che cresce e che contiene a stento, Gheddafi ricorre alle classi popolari, ai beduini, ai giovani, ai quali propone la sola vera democrazia "dopo quella ateniese". Attua in quel periodo un'ampia distribuzione della ricchezza dovuta al petrolio. Al tempo stesso predica un potere popolare diretto. Cosi nasce il Libro Verde, nel '76, in cui si teorizza una terza via, una forma di governo inedita, articolata in congressi di base, ai quali appartengono automaticamente i cittadini, e in altrettanti comitati più ristretti, in sindacati, in associazioni, che formano una piramide al vertice della quale c'è il Congresso generale del popolo, istanza suprema della Jamahiriya, vale a dire lo Stato delle masse. È una forma di socialismo ispirato a suo avviso dall'Islam, che resta "il messaggio eterno". Nel frattempo, sentendosi abbastanza robusto, Gheddafi avvia nel '77 una forte repressione, e uccide una trentina di oppositori. Le stragi saranno da allora sistematiche. Così gli arresti arbitrari, senza processo e le torture. Deluso dagli arabi si rivolge all'Africa, e si impegna in una guerra nel Ciad, dove porta al potere Gukuni Oueddei, un suo protetto, che entra nella capitale, N'Djamena, su un carro armato libico. Il presidente Reagan lo considera la mano di Mosca in Africa. E più crescono i sospetti americani e più Gheddafi si allinea sul blocco sovietico. In seguito a una serie di attentati, negli aeroporti di Vienna e di Roma, nell'aprile dell'86, l'aviazione americana bombarda Bab Al-Aziziya, il quartier generale dove si pensa a torto che si trovi Gheddafi. Gli attentati del dicembre '88 a Lockerbie contro un Boeing della PanAm e dell'anno successivo nel Niger contro un DC10 della francese UTA sono imputati ai servizi segreti libici. Ci vorranno dieci anni, e le sanzioni dell'Onu, per convincere Gheddafi a riconoscere la responsabilità. E a rimborsare col tempo i parenti delle vittime. Ma la svolta avviene quando George W. Bush invade l'Iraq di Saddam Hussein.
IL NEMICO BIN LADEN
Il raìs libico è preso dal panico, teme di subire la stessa sorte e comincia a collaborare con gli Stati Uniti alla caccia dei jiadisti di Al Qaeda. Gheddafi diventa il nemico di Bin Laden. Le sue carceri sono già affollate da musulmani integralisti che si sono opposti al regime. La collaborazione con la Cia è dunque facile. Lo è anche con i servizi inglesi. E con quelli degli altri paesi occidentali. È tuttavia quando annuncia l'abbandono del programma nucleare che avviene il suo rientro in società. Nicolas Sarkozy lo accoglie a Parigi e gli consente di montare la sua tenda a due passi dal Palazzo dell' Eliseo. Silvio Berlusconi gli offre a Roma una platea di ragazze desiderose di conoscere le sue idee sulle donne. È il trionfo. L'Occidente assetato di petrolio lo festeggia, dimenticando i milleduecento prigionieri uccisi dagli sgherri di Gheddafi nel carcere di Tripoli. La restituzione dei loro corpi sarà all' origine della manifestazione del 17 febbraio a Bengasi, quando incomincia l' insurrezione.