POSTATO DA JASMINE E SOFIA:
Zaooooo!
Ecco un bellissimo brano tratto dal nuovo album dei One Directon e si chiama:
SUMMER LOVE :D
http://www.youtube.com/watch?v=d164x2dT3ck
E questa è un' altra canzone (Sempre dell' album!):
http://youtu.be/-pSUbrq84aE
BUON ASCOLTO!! e ZAOOOO
mercoledì 21 novembre 2012
domenica 18 novembre 2012
Viva l'italiano
POSTATO dal prof d’italiano:
Giovedì 15 novembre 2012 la Repubblica ha pubblicato questo articolo di Andrea Camilleri, lo scrittore che ha inventato il commissario Montalbano. Fa parte della Lectio magistralis che lo scrittore ha tenuto lo stesso giorno all’Università di Urbino “Carlo Bo”, dove è stato insignito della laurea honoris causa in Lingue. Leggetelo.
VIVA L' ITALIANO
Di Andrea Camilleri
Se all'estero la nostra lingua è tenuta in scarsa considerazione, da noi l'italiano viene quotidianamente sempre più vilipeso e indebolito da una sorta di servitù volontaria e di assoggettamento inerte alla progressiva colonizzazione alla quale ci sottoponiamo privilegiando l'uso di parole inglesi. E c'è di più. Un esempio per tutti. Mi è capitato di far parte, quale membro italiano, della giuria internazionale del Premio Italia annualmente indetto dalla Rai con sede a Venezia. Ebbene, il regolamento della giuria prevedeva come lingua ufficiale dei giurati quella inglese, senza la presenza di interpreti. Sicché uno svedese, un russo, un francese e un giapponese e un italiano ci trovammo costretti ad arrangiarci in una lingua che solo il rappresentante della BBC padroneggiava brillantemente. Va da sé che la lingua ufficiale, in Francia, del Festival di Cannes è il francese, la lingua ufficiale in Germania del Festival di Berlino è il tedesco. E il Presidente del Consiglio, parlando di spread o di spending rewiew è il primo a dare il cattivo esempio. Monti però non fa che continuare una pessima abitudine dei nostri politici, basterà ricordare parole come «election day», «devolution», «premier» e via di questo passo. Oppure creando orrende parole derivate tipo «resettare». Tutti segni, a mio parere, non solo di autosudditanza ma soprattutto di un sostanziale provincialismo. Piccola digressione. Il provincialismo italiano, antico nostro vizio, ha due forme. Una è l'esaltazione della provincia come centro dell'universo. E valgano i primi due versi di una poesia di Malaparte, «Val più un rutto del tuo pievano / che l'America e la sua boria»..., per dirne tutta la grettezza. L'altra forma è quella di credersi e di dimostrarsi non provinciali privilegiando aprioristicamente tutto ciò che non è italiano. Quante volte ho sentito la frase: «io non leggo romanzi italiani» o più frequentemente, «io non vado a vedere film italiani». Finita la digressione. Se poi si passa dalla politica al vivere quotidiano, l'invasione anglosassone appare tanto estesa da rendersi pericolosa. Provatevi a saltare da un canale televisivo all'altro (mi sono ben guardato dal dire «fare zapping»), vedrete che il novanta per cento dei titoli dei film o addirittura di alcune rubriche, sono in inglese. La stessa lingua parlano le riviste italiane di moda, di architettura, di tecniche varie. I discorsi della gente comune che capti per strada e persino al mercato sono spesso infarciti di parole straniere. In quasi tutta la strumentistica prodotta in Italia i sistemi di funzionamento sono identificati con parole inglesi. (...) A questo punto non vorrei che si cadesse in un equivoco e mi si scambiasse per un sostenitore dell'autarchia della lingua di fascistica memoria. Quando il celebre brano jazz «Saint Louis blues» diventava «Tristezze di san Luigi», il cognac «Arzente» e i cognomi della Osiris o di Rascel si dovevano mutare in Osiri e Rascele. Benvenuto Terracini sosteneva, e a ragione, che ogni lingua nazionale è centripeta, cioè a dire che si mantiene viva e si rinnova con continui apporti che dalla periferia vanno al centro. Un amico russo, molto più grande di me, andatosene via nel 1918 dalla sua patria e tornatovi per un breve soggiorno nel 1960, mi confidò, al suo rientro in Italia, che aveva incontrato molte difficoltà a capire il russo che si parlava a Mosca, tanto era infarcito di parole e di locuzioni operaie e contadine che una volta non avrebbero mai ottenuto cittadinanza nei vocabolari. Ma erano sempre e comunque parole russe, non provenienti da lingue straniere. In sostanza, la lingua nazionale può essere raffigurata come un grande, frondoso albero la cui linfa vitale viene risucchiata attraverso le radici sotterranee che si estendono per tutto il paese. È soprattutto dal suo stesso terreno, dal suo stesso humus, che l'albero trae forza e vigore. Se però il dosaggio e l'equilibrio tra tutte le componenti che formano quel particolare terreno, quell'unico humus, vengono alterati attraverso l'immissione di altre componenti totalmente estranee, esse finiscono con l'essere così nocive che le radici, esattamente come avviene in natura, tendono a rinsecchire, a non trasmettere più linfa vitale. Da quel momento l'albero comincia a morire. Se comincia a morire la nostra lingua, è la nostra stessa identità nazionale che viene messa in pericolo. È stata la lingua italiana, non dimentichiamolo mai, prima ancora della volontà politica e della necessità storica, a darci il senso dell' appartenenza, del comun sentire. Nella biblioteca di un mio bisnonno, vissuto nel più profondo sud borbonico, c'erano La Divina commedia, l' Orlando furioso e i Promessi sposi tutti in edizione pre-unitaria. È stata quella lingua a farlo sentire italiano prima assai di poterlo diventare a tutti gli effetti. Una lingua formatasi attraverso un processo di assorbimento da parte di un dialetto, il toscano, vuoi dal primigenio volgare vuoi da altri dialetti. Dante non esitava a riconoscere il fondamentale apporto dei poeti «dialettali» della grande scuola siciliana, e ricordiamoci che è stato il siciliano Jacopo da Lentini l' inventore di quella perfetta macchina metrica che è il sonetto. E in Boccaccio, in certe novelle geograficamente ambientate fuor da Firenze, non si coglie qua e là un'eco di quel dialetto parlato dove la novella si colloca? Perché da noi è avvenuta, almeno fino a una certa data, una felice coesistenza tra lingua nazionale e dialetti. Il padovano del Ruzante, il milanese di Carlo Porta, il veneziano di Goldoni, il romano di Belli, il napoletano di Di Giacomo, il siciliano dell'abate Meli hanno prodotto opere d'altissimo valore letterario che hanno arricchito la nostra lingua. La guerra che subito dopo l'Unità d' Italia si cominciò a combattere più o meno scopertamente contro i dialetti, e che raggiunse il suo apice negli anni del fascismo, è stata un'insensata opera di autodistruzione di un immenso patrimonio. Si è scioccamente visto il dialetto come un nemico della lingua nazionale, mentre invece esso ne era il principale donatore di sangue. Oggi paghiamo lo scotto di quell'errore. Abbiamo abbattuto le barriere e quei varchi sono rimasti pericolosamente senza difesa. La mia riflessione termina qui. Coll'augurio di non dover lasciare ai miei nipoti non solo un paese dal difficile avvenire ma anche un paese la cui lingua ha davanti a sé un incerto destino.
Nuovo presidente cinese
POSTATO dal prof d’italiano:
Forse in Cina sta cambiando qualcosa. Per chi ne è interessato, questi 2 articoli pubblicati su la Repubblica, il primo il 14 novembre, il secondo il 16 novembre 2012.
Xi Jinping è il più innovatore tra i conservatori. Le riforme che potrebbe avviare fanno paura al comitato centrale del partito. Che, per questo, l’ha blindato
Il Gorbaciov cinese
Di Giampaolo Visetti
PECHINO - Per il compagno Hu Jintao oggi è il giorno del congedo, l'attimo sospeso di massimo pericolo per un regime in cui l'uscita di scena non risulta sul copione. Mao Zedong morì imperatore. Deng Xiaoping impose la pensione a settant'anni, prima di essere risucchiato da comandante in capo nella tragedia di piazza Tienanmen. Jiang Zemin, privo di eredi, rimase segretario un anno di più e altri due al vertice delle forze armate: era il primo leader cinese a non aver fatto la rivoluzione, il primo privo del carisma per nominare il proprio successore. Ora tocca a Hu, il vuoto vestito di grigio, e per la prima volta la Cina prova ad essere un autoritarismo perbene. Le regole non ci sono, ma il partito-Stato le seguirà e il "principe rosso" Xi Jinping allo scoccare della mezzanotte entrerà da imperatore nella Città Proibita. Il 18° Congresso, che si chiude oggi a Pechino, è stato un' impressionante esibizione di ciò che è costretta ad essere una dittatura capitalista di successo al tempo dei social media. Capitale blindata, vietato portarsi in giro palline da ping pong, internet sotto sequestro, piccioni chiusi in gabbia e seconda economia del mondo in ostaggio di censura e propaganda. A giornali e tivù è stato ordinato di dare solo notizie entusiasmanti e di glorificare il «decennio d'oro» dello «sviluppo scientifico» di Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. A seguire «l' evento politico più importante del decennio», 1.700 giornalisti di tutto il mondo. È chiaro che con branchi di cronisti gonfi di thé, sono necessarie conferenze stampa quotidiane. Il problema è che nessuno tra i 2.270 delegati del Congresso aveva il permesso di parlare. Qualcuno ha risposto leggendo pezzi del discorso d'addio di Hu Jintao: «Seguiremo i temi approvati dal partito per promuovere le riforme». Altri hanno pregato di non fare domande. Altri ancora si erano fatti approvare due righe da leggere: «Sono il segretario del partito di Tianjin. Le mie responsabilità sono di studiare seriamente e di discutere lo spirito...». Ai delegati selezionati per i video, sono state poste domande preparate che potevano dare l'illusione di una polemica: «Signor zio, le merendine si possono mangiare tranquillamente vero?». È su questa terrificante prova di autocontrollo collettivo, senza che uno solo degli 1,4 miliardi di cinesi sia riuscito ad avvicinarsi al mausoleo di Mao con un foglietto di blandissima protesta, che irrompono oggi il leader del futuro, la quinta generazione dei comunisti di mercato e i funzionari in Audi nera che già si preparano a comandare, dal 2022 al 2032, quella che sarà la prima potenza del pianeta. E se il Congresso, come da statuto, non poteva assumere alcuna decisione, limitandosi a ratificare le promozioni decise dai capi a riposo, gli interminabili interventi del Comitato centrale hanno eretto al contrario un'invalicabile «Grande Muraglia»: l'incubo contemporaneo della Cina è che da domani il misterioso Xi Jinping, conservatore progressista, cominci a rivelarsi un «nuovo Gorbaciov». Alla vigilia dell'annuncio che vale assai più di Barack Obama alla Casa Bianca, ossia dei nove o sette nomi a cui per i prossimi dieci anni l'umanità chiede di tenere acceso il motore della crescita, il sinistro marchio «nuovo Gorbaciov» è risultato pubblicamente impronunciabile, ma ha segnato il dietro le quinte della lotta più spietata per il potere che la Cina abbia subìto dalla dipartita del Grande Timoniere. Poche ore e tutti sapranno fino a che punto Hu Jintao verrà umiliato, perdendo subito anche la presidenza della Commissione militare centrale, se Wen Jiabao, travolto dalla parentopoli di famiglia, farà la fine di Bo Xilai, epurato con l'accusa di essere l'ultimo maoista del Paese. Se hanno prevalso gli appetiti tradizionali dei "principi rossi" o gli affari più sofisticati della Lega della Gioventù comunista, i titoli della Borsa di Shanghai o gli appalti lungo gli anelli di Pechino, i cosiddetti riformisti o gli autocertificati conservatori. Dopo sessantatrè anni di socialismo militarizzato tutto può perfino essere tollerato, se non minaccia la stagnazione dell'apparato: tutto ma non un enigmatico gigante bonaccione, coniugato con una star del folk, che si metta in testa di passare alla storia come il Gorbaciov dell'Asia, scatenando la rivoluzione dall'alto per trasformare la Cina in una replica dell' Occidente. Momenti storici e situazioni interne non paragonabili, tra Mosca e Pechino. Ma dentro un'oligarchia legittimata dall'obbedienza del partito e dalla fedeltà dell'esercito, e non da un libero mandato popolare, il rischio di una "svolta democratica" capace di calmare una popolazione sempre più indignata da corruzione del potere e disparità tra ricchi e poveri, è lo spettro con cui il Congresso è stato costretto a confrontarsi. L'ultimo discorso di Hu Jintao da segretario generale, auto-difesa di tutta la nomenclatura rossa, è stato il manifesto dell'anti-perestrojka cinese: partito unico in eterno, no all'imitazione dell'America, consolidamento dell'economia di Stato, ma pure via libera al mercato, obbligo di raddoppio del Pil e benessere per tutti. Come se Pechino volesse segnalare che oggi sarebbe più conveniente se Usa e Ue si cinesizzassero almeno un po', piuttosto che vedere una Cina tardivamente contagiata dalla sindrome dell'Urss. I candidati scelti ieri per il Comitato centrale, che elegge oggi i venticinque del Politburo, gli immortali del Comitato permanente e i dodici intoccabili della Commissione militare centrale, hanno fatto il possibile per mettersi al riparo da quella che le autorità definiscono putinianamente «una catastrofe». L' americano Bo Xilai, neo-profeta del leaderismo mediatico etichettato come nostalgico della canzoni proletarie, è al sicuro e in attesa di processo. Xi Jinping può così prendere le redini del partito a vent'anni dalla morte del padre, epurato e riabilitato eroe della rivoluzione, sotto la tutela dei generali e grazie alla garanzia dell'ottantaseienne Jiang Zemin. «Primus inter pares», è stato cinturato da un collegio cardinalizio a prova di sorprese: parola d'ordine «stabilità». Solo l'avvocato Li Keqiang, premier dal prossimo marzo e unico superstite della banda di Hu, è accreditato di accettabili dosi di riformismo, almeno economico. Congelato il sistema, il leader uscente dovrebbe dunque annunciare oggi anche il suo clamoroso addio alle armi, dimettendosi contemporaneamente da esercito e partito, per la prima volta nella storia cinese, a riprova di quanto Pechino sia in allarme per la sicurezza interna e per i venti di guerra che soffiano tra i vicini di casa e sul Pacifico. «La situazione globale - ha confidato un delegato che ha passato la selezione per il Comitato centrale - non consiglia alla Cina di restare, come in passato, un paio d'anni con due centri di potere». Stop al gorbaciovismo confuciano, ma scelte nette: percentuali maggiori di «democrazia interna al partito», una sorta di "primarie" chiuse e riservate per selezionare i leader del futuro, test elettorali nei villaggi, sondaggi popolari preventivi per stabilire il livello di opposizione di massa alle grandi opere e target predefiniti per la crescita del Pil. Altrettanto insuperabili, almeno per due generazioni, i quattro no affidati da oggi a Xi Jinping: no al multipartitismo elettorale, no a indipendenza o autonomia per le regioni ribelli di Tibet storico e Xinjiang, no al riconoscimento dei crimini di Mao e del massacro di piazza Tienanmen, no alla libertà di espressione e alla liberazione dei dissidenti. Il vecchio sovrano Hu Jintao esce oggi di scena con la mesta dignità nazionale di chi si è limitato a non sperperare il patrimonio di famiglia. Il nuovo imperatore Xi Jinping sale oggi sul trono della Cina con il trionfante mandato globale di riformarla per non cambiarla: di seppellire Lenin e Mao, ma senza diventare Gorbaciov.
Cina, via falce e martello
Inizia l' era di Xi Jinping
Di Giampaolo Visetti
PECHINO - Se al suo fianco ci fosse stata Peng Liyuan, moglie cantante e generale, la Cina avrebbe sperato e temuto di assistere all'esordio di un'altra rivoluzione e di aver definitivamente contratto il virus dell'America. Xi Jinping, presidente il prossimo marzo, ha assunto i pieni poteri del Paese, ma a questo dettaglio solo i riformisti sconfitti del 18° Congresso hanno badato. Perché la Cina e il resto del mondo hanno assistito ieri a un evento straordinario. Sul palco prossimo alla Grande sala del popolo è salita infatti l'immagine di ciò che nei prossimi dieci anni la seconda economia del pianeta è decisa a diventare. Programma: primo discorso del nuovo segretario generale del partito comunista. I leader di Pechino sono sempre stati la replica dei monarchi rossi di Pyongyang: robotici, inespressivi e muti, una mano paralizzata a salutare il vuoto. Nel palazzo affacciato su piazza Tienanmen, è invece atterrata ieri quella che ai cinesi è sembrata l'incarnazione di un extraterrestre, il fantasma di Barack Obama imprigionato nel sosia di Mao Zedong. Il nuovo imperatore della Cina non ha detto nulla di diverso dal discorso d'addio di Hu Jintao. Ma il "come" ha deciso di essere, ha reso evidente che il "principe rosso" scelto per trasformare la nazione nella superpotenza del secolo, non si accontenterà di fare due passi nella Città Proibita. Alla testa degli altri promossi nel comitato permanente del Politburo, Xi Jinping non ha mai smesso di sorridere, ha presentato i sei compagni, si è scusato del ritardo e ha assunto gli impegni attesi con la noncuranza attenta che tradisce la certezza di una parola che verrà mantenuta. Dietro di lui sono scomparse bandiere rosse e la grande falce con martello, coreografia di Hu Jintao. Xi ha parlato davanti a un enorme quadro con montagne e cascate d'acqua. Capelli tinti e imparruccati di nero, come tutti i funzionari, ma il suo modo di indossare la nuova divisa dell'autorità, vestito blu, camicia bianca e cravatta rossa, è stata la prima lezione di "riforma del sistema politico" a cui la Cina abbia assistito. Colletto storto, nodo della cravatta troppo stretto, giacca larga, busto di traverso: ha parlato a braccio , usando con fiducia anche le parole logore contro la corruzione e non ha nascosto il bisogno di un contatto emotivo con compatrioti e stranieri che lo stavano ascoltando. Sul trono del partito-Stato è salito cioè un leader contemporaneo fedele all'ortodossia di Deng Xiaoping, ma che trasmette l'attrazione per il mondo che si estende oltre la Grande Muraglia. Le telecamere non smettevano di riprendere la nuova icona politica dell'intreccio globale: manifesto di un'ambizione e riscatto di una biografia, ma prima di tutto l'annuncio che in Cina il vento sta cambiando. Senza sorprese il resto. Il 18° Congresso ha pensionato il 50% dei funzionari e aperto a una generazione nuova di dirigenti. Il comitato centrale è andato ai "principi rossi", che hanno prevalso sugli allievi della Lega della gioventù comunista. Gli autodichiarati conservatori hanno polverizzato chi si definisce riformista. Stop a "grandi balzi in avanti". Nel Comitato permanente, ridotto da nove a sette posti per dare meno noia a Xi Jinping, sono entrati i protetti dei grandi vecchi del partito e del redivivo Jiang Zemin. Li Keqiang, unico discepolo di Hu Jintao, succederà all'emarginato Wen Jiabao come premier. Nella stanza dei bottoni: Zhang Dejiang, sostituto dell'epurato Bo Xilai a Chongqing, Yu Zhengsheng, capo di Shanghai, Liu Yunshan, architetto di censura e propaganda, Wang Qishan, esperto di finanza eletto sceriffo anti-corruzione, e Zhang Gaoli, segretario di Tianjine grande sponsor degli investimenti stranieri. A comandare gli interessi di Pechino, Tianjin, Shanghai e Chongqing, più un uomo dei conti e uno della sicurezza. Solo nel Politburo i sovraesposti Wang Yang, profeta del Guangdong, e Liu Yandong, che non sarà la prima donna tra gli "immortali" del partito. In pensione gli altri big, seguiti presto da Zhou Xiaochuan, governatore della banca centrale. Hu Jintao è stato anche costretto a lasciare subito a Xi Jinping la guida della Commissione militare centrale. Significa che una Cina con l'economia in affanno non può permettersi due centri di potere e che la corsa al riarmo, nel Pacifico, è una priorità. Così quando il nuovo ad della globalizzazione in crisi si è avviato verso l'uscita del palazzo, ognuno ha avvertito quanto questa montagna di potere, quel mostro asiatico definito comunismo di mercato, gli stiano stretti. Nessuno sa da dove, né come e per quale fine si sia scatenata l'ascesa di Xi Jinping, vaticinata dalla famosa t-shirt di "Obamao". Però da ieri è certo che tra dieci anni in Cina poche cose saranno come oggi appaiono. Immobili, ma avanti. Poche certezze: molte, molte, molte speranze.
sabato 17 novembre 2012
Alluvioni: ogni anno è la stessa cosa
POSTATO dal prof d’italiano:
A completamento della giornata della Protezione Civile svoltasi questa mattina, leggete questi articoli pubblicati da la Repubblica. Il primo è del 14 novembre 2012.
Piove di più, nessuno cura i fiumi
così il maltempo diventa una tragedia
di Elena Dusi
È una tempesta perfetta. Le piogge si intensificano, la porzione di territorio urbanizzato in Italia guadagna ogni anno l'equivalente di due città di Roma, i fiumi vengono costretti negli argini perché non straripino, i loro sedimenti si accumulano nell'alveo e sollevano il livello dell'acqua, aumentandone l'energia in caso di esondazione. Perfino i campi diventano più estesi e perdono i fossi di scolo che da sempre li circondavano. In Toscana e Liguria fiumi ripidi e letti piccoli moltiplicano il rischio in caso di acquazzoni. Nel frattempo le mappe del rischio restano ferme al passato, mentre le legislazioni fanno addirittura passi indietro. Il risultato? Oltre 120 frane e inondazioni tra il 2005 e il 2011, con 200 vittime e danni stimati sopra al miliardo all'anno (due volte e mezzo quanto si spende per la prevenzione). Il mix degli interventi con il contagocce e del rischio che aumenta (sia per il clima che per l'urbanizzazione) punta dritto verso un unico esito prevedibile: l'assicurazione obbligatoria, che ogni tanto si affaccia in una bozza di legge e che ieri è stata rievocata dal capo della Protezione civile. Il rischio idrogeologico in Italia è una tenaglia che stringe da molti lati. «Buona parte dell'urbanizzazione, soprattutto quella selvaggia, è avvenuta intorno agli anni '60 e '70, l 'epoca in cui la piovosità è stata ai minimi del secolo. Ponti, argini e case sono stati costruiti senza tenere conto del problema dell'acqua. Oggi ci ritroviamo con infrastrutture del tutto inadeguate» spiega Paolo Paronuzzi, direttore di un master sul rischio idrogeologico all' università di Udine. «Le fognature delle città non sono progettate per smaltire precipitazioni simili. A Genova i fiumi sono costretti in spazi angusti, o addirittura dirottati sottoterra. Se si gonfiano, cosa si può fare? Le uniche soluzioni che mi vengono in mente sono opere radicali, di portata paragonabile a quella del Mose a Venezia» dice Fausto Guzzetti, che al Cnr dirige l'Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica. «La legislazione del 1989 aggiunge Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio nazionale dei geologi - divideva il territorio italiano in bacini idrografici, ognuno dei quali ricadeva sotto il controllo di un'autorità di bacino. Nel 2006 abbiamo recepito una direttiva europea che si occupa di ambiente in senso lato e dedica solo un capitolo al rischio idrogeologico. È una norma più adatta ai paesi con fiumi molto grandi. Il risultato in Italia è la frammentazione di competenze e responsabilità. Di fronte a una situazione di rischio non si sa nemmeno chi debba intervenire». Nel 2010 il Consiglio nazionale dei geologi ha pubblicato uno studio secondo cui 29.500 chilometri quadrati con quasi 6 milioni di abitanti sono ad alto rischio idrogeologico. La minaccia di frane o alluvioni riguarda 1,3 milioni di edifici, fra cui 6mila scuole e 531 ospedali. Dal dopoguerra i disastri idrogeologici sono costati 52 miliardi, una cifra che nell' ultimo ventennio è passata da 800 milioni medi annui a 1,2 miliardi. Secondo il ministero dell' Ambiente, per mettere in sicurezza tutto il territorio italiano servirebbero 40 miliardi.
Il secondo è del 15 novembre 2012.
Terre sommerse
di Carlo Petrini
Nelle Langhe, tutte le volte che pioveva molto, e per alcuni giorni di fila, si diceva che i contadini iniziassero a "portare l'acqua a spasso". Sulle colline e su qualsiasi altro terreno in pendenza gli agricoltori, armati di zappa, scavavano stretti e lunghi solchi pieni di curve: così aiutavano l'acqua a "camminare" per un po' prima che scendesse a valle. Una precauzione perché non acquisisse forza distruttiva, sia per le coltivazioni sia, a valanga e nei casi più gravi, per le costruzioni.
Torna questo frammento di memoria, che tanti anni fa sembrava più che altro un racconto colorito riferito alla civiltà contadina, ogni volta che in Italia un territorio va sott'acqua o un fiume esonda portando danni, tristezza e purtroppo morte. E viene da pensarci sempre più spesso, perché capita regolarmente ogni autunno da un po' di anni a questa parte, e molte volte anche a fine inverno. Per curiosità, basta controllare l'elenco delle alluvioni di una certa importanza avvenute in Italia, che si trova facilmente su internet.
Salta subito all'occhio come i fenomeni gravi in termini di danni materiali e di vite umane si siano molto intensificati a partire dal secondo dopo-guerra. Guardando quell'elenco, poi, si capisce che l'Italia è da sempre un Paese naturalmente soggetto a questi eventi, ma una tale escalation non è spiegabile se non con una riflessione riguardante la nostra cura per il territorio e i luoghi in cui viviamo.
Sarebbe forse troppo facile - ma anche poco serio senza un adeguato supporto scientifico - chiamare in causa il cambiamento climatico, anche perché i disastri legati al meteo si sono moltiplicati in tutto il mondo. Sicuramente qualcosa sta mutando nella prevedibilità e nella frequenza di fenomeni atmosferici eccezionali, è evidente, ma se guardiamo a come abbiamo trattato il nostro Paese negli ultimi due secoli, e maggiormente negli ultimi sessant'anni, non si può non pensare che siamo stati incauti, se non scellerati, nel depredarlo, abbandonarlo, coprirlo di cemento, nel costruire senza criteri preventivi rispetto a cataclismi cui ormai dovremmo essere un po' abituati, e anche preparati, da almeno qualche centinaio di anni.
Non ci vuole un genio per capire certe cause e non ci vorrebbe neanche un genio della politica per cercare di correre subito ai ripari. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio italiano dovrebbe essere la priorità di qualsiasi governo, dovrebbe essere in qualsiasi programma elettorale, dovrebbe mettere d'accordo tutte le forze politiche. E invece no. Ogni autunno bisogna ricordare, di fronte a questi drammi, chi "portava l'acqua a spasso".
Parlare di civiltà agricola del passato non è irrispettoso, non è un caso o un esercizio trito da maniaci delle contadinerie. Studi storici ci spiegano che su un territorio geomorfologicamente fragile come il nostro abbiamo iniziato un paio di secoli fa con il disboscamento a tappeto delle aree collinari e montane.
Questo ha peggiorato molto la sicurezza dei terreni e reso più pericoloso il deflusso delle acque, ma quanto meno si era fatto spazio a un'agricoltura che era pur costretta a prendersi cura del territorio in maniera capillare e sistematica. Il tutto su base locale ma con una sapienza che quando in casi eccezionali doveva lamentare danni e perdite, almeno poteva inveire a ragione contro la malasorte, perché si era fatto tutto il possibile per prevenire.
Poi, con l'avvento dell'era industriale, l'inizio dell'irreparabile: prima l'abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l'agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate "arretrate" hanno visto arrivare il deserto umano, l'incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi.
Non smetto di ricordare ciò che ha detto una volta Tonino Guerra: «L'Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c'era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l'abitavano: i contadini».
Con l'abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un'altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare "naturali". Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com'è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent'anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni. Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.
Continuando con la storia, invece, l'abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un'agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c'è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.
Quasi nessuno si prende più cura dell'Italia. Legambiente ha stimato nel 2010 che l'82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, in cinque Regioni siamo al 100%. Nemmeno lo Stato, che potrebbe fare tanto, fa il suo mentre insegue testardamente "grandi opere" che ormai suonano sempre più come una presa in giro. Non si può non urlare la richiesta di un piano serio e moderno di messa in sicurezza del territorio nazionale. Piano che agisca a livello locale non soltanto con opere minime e semplici (ma queste sì, grandi) di cura e manutenzione: anche attraverso la tutela dei suoli fertili e la rimessa in produzione di quelli compromessi (con forme di neo-agricoltura per l'industria, come coltivazioni per bioplastica in terreni inquinati). Oppure attraverso gli incentivi per un ritorno alla campagna da parte delle nuove generazioni e un premio a chi, attraverso l'attività agricola, serve ancora la Nazione con quei lavori che sanno "portare a spasso l'acqua". Questa è vera modernità, questo è ciò di cui si parla veramente quando si parla di paesaggio, di agricoltura sostenibile o di economia locale. Non è poesia o nostalgia. Sono cose che genererebbero più occupazione e Pil di quanto non ne facciano i disastri. Perché è terribile dirlo - e non è un caso che ci sia chi è stato colto a gioire e ridere per un terremoto - ma un disastro "innaturale" fa quote di Pil attraverso la ricostruzione o magari anche con forme di assicurazione privata che ora, guarda caso, alcuni vorrebbero obbligatorie per tutti.
La radio digitale
POSTATO dal prof d’italiano:
Sta per arrivare una rivoluzione nel mondo della radio (e non mi riferisco alla radio della scuola): per saperne di più, leggete questo articolo pubblicato da la Repubblica il 13 novembre 2012.
Addio alla vecchia Fm
la radio diventa digitale
LA RIVOLUZIONE digitale sta per arrivare anche nelle nostre radio: tra poche settimane il Trentino sarà la prima "area digitale radiofonica" italiana nella quale invece che attraverso la ormai classica "modulazione di frequenza" (l' Fm con la quale ascoltiamo quotidianamente le nostre emittenti preferite) la radio si ascolterà attraverso il Dab, il digital audio broadcast. È l’inizio di un percorso che, contemporaneamente a quello che sta accadendo in tutta Europa - dove le trasmissioni Dab sono iniziate da qualche tempo - porterà la radio digitale anche nel nostro Paese, così com'è accaduto per la tv. «Finalmente il digitale radiofonico dopo l'Europa arriva definitivamente in Italia grazie all'impegno di un gruppo di importanti editori radiofonici privati nazionali», ha detto Fabrizio Guidi, presidente del Club Dab Italia, società formata da alcune delle più importanti realtà radiofoniche private nazionali (Radio DeeJay, Radio Capital, M2o, R101, Rds, Radio 24, Radio Radicale e Radio Maria) e che ha già ottenuto il nulla osta per l'avvio della realizzazione della prima rete nazionale in tecnica digitale. Cosa cambierà per noi ascoltatori? Innanzitutto gli oggetti attraverso i quali ascolteremo la radio, i ricevitori. Quelli attuali, analogici, ricevono i segnali dell' Am e soprattutto dell' Fm. Quelli nuovi saranno, invece, in grado di catturare anche i segnali digitali. Il cambiamento consentirà di ricevere le trasmissioni delle emittenti senza alcuna interferenza, con una qualità audio pari a quella di un cd. Il che, considerando che oggi circa il 70 per cento dell'ascolto radiofonico avviene in mobilità (soprattutto in auto), e che la frequenza delle radio Dab resta stabile e non cambia con il movimento, è decisamente un grande passo avanti. Oltretutto, la trasmissione digitale consente di mandare ai ricevitori altri dati, testi e immagini, trasformandola in una "visual radio" che, soprattutto per le informazioni sul traffico, può essere uno strumento particolarmente utile in auto. «Il fatto che questo "futuro digitale" cominci solo ora la dice lunga su quanto la radio venga considerata il parente povero del mondo della comunicazione», tiene a sottolineare Linus, direttore di Radio DeeJay. «Questa rivoluzione è stata affrontata dai legislatori con un po' di pigrizia. Per fare un paragone, è come se la tv fosse ancora rimasta ai tempi della videocassetta». Ma le cose cambiano in fretta e, oltre all'inizio ufficiale delle trasmissioni digitali in Trentino, la radio in realtà vive già nell'era elettronica attraverso altri sistemi, dal satellite a Internet. «È vero, le nuove auto hanno l'ingresso per collegare Internet con una chiavetta, o l' iPhone all'autoradio, ma non è ancora abbastanza, ed è fondamentale che quest'ultima trasformazione avvenga presto: non possiamo perdere un treno che sarebbe molto importante per tutti», dice ancora Linus. In Trentino, intanto, la radio trasforma il proprio segnale in bit, quello delle emittenti del Club Dab e quello di due consorzi con tutte le principali emittenti locali, ricevibili con nuovi apparecchi. Apparecchi touch, con il Bluetooth per collegare i cellulari o i lettori mp3, e che consentono anche di ascoltare ancora la "vecchia" Fm. Insomma, la radio si aggiorna e inizia il suo cammino verso una nuova era, senza invecchiare mai: «È una cosa che dico sempre quando ogni tanto vedo attaccare i manifesti funebri per la radio, sempre sul punto di "essere sostituita" da qualcosa di nuovo», conclude Linus. «La gente sovrappone l'immagine dell' apparecchio al prodotto, che invece è impalpabile e può essere infilato in qualsiasi terminale. La radio la puoi miniaturizzare e inserire nel cellulare o in un tablet, in un computer o in una tv, per cui sopravviverà di certo. Si trasformerà ancora, diventerà modernissima e digitale, sopravviverà a noi e anche ai nostri nipoti...».
Il grande romanzo della chimica
POSTATO dal prof d’italiano:
Ai miei alunni interessati alla chimica chiedo di leggere questo bell’articolo pubblicato da la Repubblica il 9 novembre 2012 (ma anche gli altri possono leggerlo).
di Piergiorgio Odifreddi
Un prestigiatore versa del caffè o del tè caldo in una tazza, lo rimescola con un cucchiaio metallico, e questo si fonde fino a sciogliersi nella bevanda, come se fosse di cioccolato. Dove sta il trucco? In realtà, non c'è! Perché è vero che i metalli in genere si sciolgono soltanto ad alte temperature, ma non sempre: ad esempio, il gallio si scioglie a trenta gradi. Dunque, per liquefare un cucchiaino di gallio non c'è nemmeno bisogno di metterlo in una bevanda calda: basta tenerlo in mano. Questo strano metallo fu isolato nel 1875 da Paul Lecoq, che gli diede il nome: lui diceva per amor di patria, visto che era francese, ma i pettegoli insinuavano per amor proprio, visto il suo cognome. In ogni caso la scoperta fece scalpore, perché il gallio era il primo elemento non compreso nella tavola periodica pubblicata nel 1869 da Dmitrij Mendeleev. Ma era uno degli elementi di cui il russo aveva profeticamente previsto l'esistenza e le caratteristiche, chiamandolo eka-alluminio e posizionandolo in corrispondenza dell'alluminio, appunto. Alla storia della tavola di Mendeleev e degli elementi che essa classifica è dedicato Il cucchiaino scomparso di Sam Kean (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri, pagg. 410, euro 34), un affascinante libro che dovrebbe essere letto dai molti che della chimica sanno una cosa sola: che c'è. Stranamente, infatti, anche coloro che si interessano di divulgazione scientifica prediligono spesso gli estremi della fisica delle particelle e della biologia dei viventi, snobbando un po' quelli che in realtà sono i mattoni del mondo e della vita: gli atomi e le molecole, appunto, che trovano il loro fondamento teorico nella tavola periodica degli elementi. Quest'ultima organizza il centinaio di elementi conosciuti, disponendoli in sette righe e diciotto colonne. Solo due di essi sono liquidi a temperatura ambiente, il mercurio e il bromo, mentre gli altri sono per tre quarti dei metalli, e per un quarto dei gas. Gli elementi più diffusi nell'universo sono l'idrogeno e l'elio, rispettivamente al novanta e al dieci per cento circa: the rest is dross, direbbe il poeta. Gli elementi meno diffusi, invece, sono il francio e l'astato: ce ne sono al mondo, in tutto, una trentina e una ventina di grammi, e siamo tutti scusati se non li abbiamo mai sentiti nominare prima. Alla base degli organismi biologici e degli strumenti informatici stanno due elementi molto simili fra loro: il carbonio e il silicio. Altri elementi sono cruciali per il funzionamento non solo del corpo, ma anche della mente, a dimostrazione della sua materialità: ad esempio, una carenza di iodio o di litio porta al cretinismo o alla depressione, e un eccesso di manganese a sintomi simili a quelli del morbo di Parkinson. Gli elementi sono comunque spesso armi a doppio taglio, e possono essere benefici o malefici a seconda delle circostanze. L' azoto, ad esempio, viene usato nei fertilizzanti artificiali, che sono la benemerita invenzione di Fritz Haber, premio Nobel per la chimica nel 1919: un dottor Jekyll che inventò anche le armi chimiche, al cloro e al bromo, usate dai tedeschi con effetti devastanti durante la prima guerra mondiale. Se però viene inalato, l'azoto ha effetti letali, benché completamente indolori: oltre ad aver causato molti incidenti mortali in miniera, può anche essere considerato il miglior candidato per una "dolce morte". Gli strani nomi degli elementi sono il risultato di battesimi non sempre oculati: come nei quasi indistinguibili bario, bohrio e boro. A volte i nomi richiamano l'astronomia, come il selenio, il mercurio, l'uranio e il plutonio. Altre volte la geografia, come il polonio, l'americio, il californio, il berkelio e lo (stocc)olmio. Altre ancora grandi scienziati, come il copernicio, il mendelevio, il curio, l'einsteinio e il fermio. Altre infine il luogo del loro ritrovamento, come l'itterbio, il terbio, l'erbio e l'ittrio, tutti scovati nella miniera svedese di Ytterby tra il 1794 e il 1878. Benché la tavola degli elementi sia oggi identificata con il nome di Mendeleev, i suoi fondamenti risalgono alla scoperta di Johann Döbereiner delle "affinità elettive" che diedero il titolo a un romanzo di Goethe. Del fatto, cioè, che alcuni elementi diversi si comportano in maniera simile. Ad esempio, lo stronzio, isolato nel 1790 da un minerale estratto dalla miniera scozzese di Strontian, ha un peso atomico a metà tra quelli del bario e del calcio, ed è chimicamente affine a loro. Lo stesso succede per la triade formata da cloro, bromo e iodio, e per molte altre. Ci volle mezzo secolo per riuscire a mettere ordine nel caos, e almeno una mezza dozzina di chimici contribuirono con idee cruciali, oltre a Mendeleev. Primo fra tutti Alexandre Béguyer, che nel 1862 mise in fila gli elementi in ordine di peso atomico, e notò che dopo i primi 2 le loro proprietà sembravano ripetersi ogni 8 elementi. In realtà, le cose risultarono un po' più complicate: ad esempio, in entrambe le triadi precedenti gli elementi si ripetono ogni 18 elementi. E oggi sappiamo che la periodicità cresce secondo i doppi dei numeri dispari (2, 6, 10, 14, eccetera), e aumenta dunque da2 a 8, a 18, a 32, eccetera. Un altro problema derivò dal fatto che, affinché la tavola funzionasse, alcuni elementi più pesanti dovevano venire prima di altri più leggeri: ad esempio, l'argon prima del potassio, e il cobalto prima del nichel. Le eccezioni sono parecchie, circa il dieci per cento degli elementi, e questo lasciava immaginare che il vero principio dell'ordinamento non fosse il peso atomico. Qual era, lo trovò nel 1913 Henry Moseley, che due anni dopo morì a ventisette anni nella battaglia di Gallipoli: gli elementi andavano ordinati in base al numero dei loro elettroni o, equivalentemente, dei loro protoni. Sia l' ordine corretto degli elementi che le loro periodicità si ricavano oggi dalla meccanica quantistica, che agli inizi del Novecento era ancora agli albori. E una delle sue prime previsioni, da parte del danese Niels Bohr nel 1922, fu che l'elemento 72 si sarebbe potuto trovare in campioni di zirconio, che è l'elemento 40: cioè, a 32 posti di distanza. Lo si trovò immediatamente, fu chiamato afnio dal vecchio nome di Copengaghen (Hafnia), e Bohr poté dare la notizia alla cerimonia del conferimento del proprio premio Nobel, diventando istantaneamente un guru scientifico. Molto più complicato fu individuare l'elemento 43, che rimase a lungo l'anello mancante della tavola periodica. Il primo annuncio della sua scoperta risale al 1828, e ad esso seguirono molti falsi allarmi. Per arrivare a uno vero si dovette attendere il 1939, quando Emilio Segré e Carlo Perrier isolarono il 43 in campioni del 42, il molibdeno, bombardandolo con nuclei di deuterio in laboratorio: per questo fu chiamato tecnezio, "artificiale", anche se in seguito lo si trovò pure in natura. Il tecnezio chiuse i conti con la tavola degli elementi naturali, che dalla sessantina dei tempi di Mendeleev era arrivata a contenerne 92, ultimo dei quali l'uranio. Ma proprio il modo in cui il tecnezio fu ottenuto indicò una via per estenderla: così come il decadimento radioattivo fa passare a elementi precedenti, infatti, il bombardamento con nucleoni fa passare a elementi successivi. In tal modo nel 1940 Edward McMillan e Glenn Seaborg ottennero gli elementi 93 e 94, chiamati nettunio e plutonio. Il secondo procedette poi a trovare una decina di nuovi elementi, ed entrambi vinsero il Nobel nel 1951. Oggi la tavola periodica è arrivata a 112 elementi, di cui il 106 si chiama seaborgio. Si pensa che ne esistano altri, alcuni dei quali addirittura stabili, o quasi. La storia raccontata da Il cucchiaino scomparso non è dunque ancora finita, anche se si sa che non potrà andare oltre il feynmanio, l' elemento 137: un numero magico, legato alla cosiddetta "costante di struttura fine", oltre il quale gli elettroni dovrebbero girare attorno al nucleo a velocità superiori a quelle della luce. Ma per ora accontentiamoci dei 112 che sicuramente esistono, e delle belle storie su ciascuno di essi raccontate da Kean.
Un prestigiatore versa del caffè o del tè caldo in una tazza, lo rimescola con un cucchiaio metallico, e questo si fonde fino a sciogliersi nella bevanda, come se fosse di cioccolato. Dove sta il trucco? In realtà, non c'è! Perché è vero che i metalli in genere si sciolgono soltanto ad alte temperature, ma non sempre: ad esempio, il gallio si scioglie a trenta gradi. Dunque, per liquefare un cucchiaino di gallio non c'è nemmeno bisogno di metterlo in una bevanda calda: basta tenerlo in mano. Questo strano metallo fu isolato nel 1875 da Paul Lecoq, che gli diede il nome: lui diceva per amor di patria, visto che era francese, ma i pettegoli insinuavano per amor proprio, visto il suo cognome. In ogni caso la scoperta fece scalpore, perché il gallio era il primo elemento non compreso nella tavola periodica pubblicata nel 1869 da Dmitrij Mendeleev. Ma era uno degli elementi di cui il russo aveva profeticamente previsto l'esistenza e le caratteristiche, chiamandolo eka-alluminio e posizionandolo in corrispondenza dell'alluminio, appunto. Alla storia della tavola di Mendeleev e degli elementi che essa classifica è dedicato Il cucchiaino scomparso di Sam Kean (Adelphi, traduzione di Luigi Civalleri, pagg. 410, euro 34), un affascinante libro che dovrebbe essere letto dai molti che della chimica sanno una cosa sola: che c'è. Stranamente, infatti, anche coloro che si interessano di divulgazione scientifica prediligono spesso gli estremi della fisica delle particelle e della biologia dei viventi, snobbando un po' quelli che in realtà sono i mattoni del mondo e della vita: gli atomi e le molecole, appunto, che trovano il loro fondamento teorico nella tavola periodica degli elementi. Quest'ultima organizza il centinaio di elementi conosciuti, disponendoli in sette righe e diciotto colonne. Solo due di essi sono liquidi a temperatura ambiente, il mercurio e il bromo, mentre gli altri sono per tre quarti dei metalli, e per un quarto dei gas. Gli elementi più diffusi nell'universo sono l'idrogeno e l'elio, rispettivamente al novanta e al dieci per cento circa: the rest is dross, direbbe il poeta. Gli elementi meno diffusi, invece, sono il francio e l'astato: ce ne sono al mondo, in tutto, una trentina e una ventina di grammi, e siamo tutti scusati se non li abbiamo mai sentiti nominare prima. Alla base degli organismi biologici e degli strumenti informatici stanno due elementi molto simili fra loro: il carbonio e il silicio. Altri elementi sono cruciali per il funzionamento non solo del corpo, ma anche della mente, a dimostrazione della sua materialità: ad esempio, una carenza di iodio o di litio porta al cretinismo o alla depressione, e un eccesso di manganese a sintomi simili a quelli del morbo di Parkinson. Gli elementi sono comunque spesso armi a doppio taglio, e possono essere benefici o malefici a seconda delle circostanze. L' azoto, ad esempio, viene usato nei fertilizzanti artificiali, che sono la benemerita invenzione di Fritz Haber, premio Nobel per la chimica nel 1919: un dottor Jekyll che inventò anche le armi chimiche, al cloro e al bromo, usate dai tedeschi con effetti devastanti durante la prima guerra mondiale. Se però viene inalato, l'azoto ha effetti letali, benché completamente indolori: oltre ad aver causato molti incidenti mortali in miniera, può anche essere considerato il miglior candidato per una "dolce morte". Gli strani nomi degli elementi sono il risultato di battesimi non sempre oculati: come nei quasi indistinguibili bario, bohrio e boro. A volte i nomi richiamano l'astronomia, come il selenio, il mercurio, l'uranio e il plutonio. Altre volte la geografia, come il polonio, l'americio, il californio, il berkelio e lo (stocc)olmio. Altre ancora grandi scienziati, come il copernicio, il mendelevio, il curio, l'einsteinio e il fermio. Altre infine il luogo del loro ritrovamento, come l'itterbio, il terbio, l'erbio e l'ittrio, tutti scovati nella miniera svedese di Ytterby tra il 1794 e il 1878. Benché la tavola degli elementi sia oggi identificata con il nome di Mendeleev, i suoi fondamenti risalgono alla scoperta di Johann Döbereiner delle "affinità elettive" che diedero il titolo a un romanzo di Goethe. Del fatto, cioè, che alcuni elementi diversi si comportano in maniera simile. Ad esempio, lo stronzio, isolato nel 1790 da un minerale estratto dalla miniera scozzese di Strontian, ha un peso atomico a metà tra quelli del bario e del calcio, ed è chimicamente affine a loro. Lo stesso succede per la triade formata da cloro, bromo e iodio, e per molte altre. Ci volle mezzo secolo per riuscire a mettere ordine nel caos, e almeno una mezza dozzina di chimici contribuirono con idee cruciali, oltre a Mendeleev. Primo fra tutti Alexandre Béguyer, che nel 1862 mise in fila gli elementi in ordine di peso atomico, e notò che dopo i primi 2 le loro proprietà sembravano ripetersi ogni 8 elementi. In realtà, le cose risultarono un po' più complicate: ad esempio, in entrambe le triadi precedenti gli elementi si ripetono ogni 18 elementi. E oggi sappiamo che la periodicità cresce secondo i doppi dei numeri dispari (2, 6, 10, 14, eccetera), e aumenta dunque da
domenica 4 novembre 2012
Una direzione (non basta)
POSTATO dal prof d’italiano:
Dedicato alle mie alunne “onedirectionfile”, questo articolo apparso su la Repubblica il 2 novembre 2012.
One Direction, tutti in delirio
le piccole fan invadono Milano
di Luigi Bolognini
Prendete Justin Bieber, che piace alle figlie per l'aria da cucciolone da strapazzare di coccole per dimenticare i 4 in Greco, l'acne e le amarezze della vita, e alle madri per l'aria innocua, cioè innocente. E moltiplicatelo per cinque. Avrete gli One Direction: il più vecchio ha 20 anni, ma ne dimostrano sui 14-15 anche se giocano a mostrare il fisico snello, una quantità di capelli quasi imbarazzante, i tatuaggi, qualche centimetro di pelle glabra e muscoletti. Adesso stanno riuscendo in un'impresa ormai titanica: vendere dischi. Dodici milioni di copie, se vi bastano, del primo, Up all night, pop caramelloso del 2011, anno in cui si sono formati per partecipare a X Factor inglese (e neppure l'hanno vinto). Molti di più si prevedono per Take me home, che esce martedì 13. «Sarà più rock», giurano i cinque (Niall Horan, Zayn Malik, Liam Payne, Harry Styles e Louis Tomlinson), venuti a Milano per una conferenza stampa e una comparsata a X Factor italiano. Due appuntamenti che hanno quasi creato problemi di ordine pubblico per gli sciami di ragazzette (libere da scuola grazie al giorno di festa), appostate in tremila davanti all'hotel Principe di Savoia, dove interviene la polizia, e in molte di più al Teatro della Luna di Assago, dove i malori da calca sono così tanti che in serata devono arrivare cinque ambulanze e un'automedica. Anche per queste scene di isteria sono parecchie le madri accompagnatrici, curiose di vedere i cinque per cui le loro bimbe sbavano, si fanno stritolare e si danneggiano le corde vocali: chiunque si affacci è scambiato per uno dei cinque e sommerso di urletti estasiati. Follie collettive che ricordano quelle per i Take That degli anni Novanta, ma che i più anziani accostano a quelle di mezzo secolo fa per i Beatles. Non si offendano i puristi del pop-rock, parliamo solo dell'aspetto divistico: un pezzo di pane sbocconcellato da Niall è stato messo all'asta per 120mila euro, per dire. E per fortuna le fan non sanno che mercoledì notte gli One Direction hanno fatto un girettino in piazza Duomo, «che ci piace da matti». Naturalmente i tempi da Lennon e McCartney sono cambiati. Anche nelle tecnologie: «Sappiamo bene - dicono i cinque - di avere un formidabile aiuto da Twitter e Facebook, che ci permettono di essere vicini ai nostri fan, che vogliono sapere giorno per giorno, anzi ora per ora, cosa facciamo». E cosa fanno è semplice. Si divertono. Anche il videoclip della canzone che traina il nuovo disco, Live while we' re young, lo spiega bene: cuccioli che passano da un tuffo in piscina a una schitarrata con gli amici. «Sì, il nostro carattere è gioioso, e questo si riflette nella musica. Però non ci godiamo la vita e basta, anzi lavoriamo parecchio e ci muoviamo in continuazione. Anzi, con tutti questi viaggi ci mancano le nostre mamme», dicono. Che non si montano la testa: «Non siamo per nulla arrivati, dobbiamo ancora fare tanto. Ad esempio imparare a suonare gli strumenti». Chissà se ci riusciranno per le loro due date italiane, il 18 maggio all' Arena di Verona e il 20 maggio al Forum di Assago.
venerdì 2 novembre 2012
La cultura piace ai ragazzi?
POSTATO dal prof d’italiano:
La Repubblica del 31 ottobre 2012 ha pubblicato questo articolo dello scrittore-insegnante Marco Lodoli. Leggetelo, perché c’è anche una citazione da “Le avventure di Huckleberry Finn” (che abbiamo appena letto) e perché potrebbe essere l’argomento del prossimo tema. E anche per discuterne in classe, visto che (pur capendo lo stato d’animo che lo muove) non mi trova del tutto d’accordo: mi sembra (forse sbaglio) che se l’insegnante trova il “modo” giusto per affrontare la cultura umanista, anche i ragazzi ne sono interessati. Che ne dite?
Addio cultura umanista
Per i ragazzi non ha senso
di Marco Lodoli
«Io non esisto più, sono diventata invisibile», mi dice una professoressa con la voce spezzata e gli occhi umidi. «Entro in classe, comincio a spiegare e subito mi accorgo che nessuno mi ascolta. Nessuno, capisci? E così per giorni, mesi, forse per tutto l'anno. La mia voce non gli arriva, parlo e vedo le parole che si dissolvono nell'aria, e dopo un poco mi sembra che anch'io mi dissolvo, resta solo un senso di impotenza, di fallimento». Quante volte negli ultimi anni ho raccolto dai miei colleghi sfoghi di questo genere: professori di lettere, storia, filosofia, arte che si sono ben preparati per la loro lezione e che finiscono a parlare nel vuoto, come radioline lasciate accese in un angolo, e a poco a poco si scaricano, si spengono malinconicamente. Perché accade questo, perché sembrano saltati i ponti e le rive si allontanano sempre di più? A riguardo mi sono fatto un'idea.
Finita, esaurita, muta, forse non proprio morta e sepolta ma di sicuro messa in cantina tra le cose che non servono più: la cultura umanista sembra aver concluso il suo ciclo, ai ragazzi non arriva più niente di tutto quel mondo che ha ospitato e educato generazioni e generazioni, che ha prodotto una visione del mondo complessa eppure sempre animata dalla speranza di poter spiegare tutto nel modo più chiaro, adeguato alla mente dell'uomo, alle sue domande, ai suoi timori. Finito, possiamo mettere una pietra sopra alla filosofia greca, alla potenza e all'atto, alla maieutica e all'iperuranio, alla letteratura latina, alla poesia italiana da Petrarca a Luzi, al pensiero cristiano e a quello rinascimentale, con le loro differenze e le loro vicinanze, ai poemi cavallereschi e agli angeli barocchi, all'idealismo tedesco e al simbolismo francese, a Chaplin e Bergman, Visconti e Fellini: è tutto precipitato giù per le scale buie della cantina, tutto scaraventato alla rinfusa nel deposito degli oggetti perduti. È chiaro che da qualche parte, in un eccellente liceo classico, esiste e resiste un ragazzo che legge Platone, scrive sonetti, suona il violino e studia la pittura di Raffaello, la vita per fortuna si diversifica per avanzare. Ma per la stragrande maggioranza dei ragazzi di oggi tutto il patrimonio culturale del nostro paese non significa più niente. È un universo in bianco e nero, malinconico, pensante e dunque pesante, polveroso come una parrucca. E non serve che gli adulti lo lucidino per farlo apparire più vivo: se brilla lo fa come una bara.
È così, c'è poco da fare, l'oceano del passato non arriva più a lambire la spiaggia del presente. Anche Huckleberry Finn rifiuta la storia di Mosè e della manna nel deserto quando scopre che Mosè è morto da secoli, della gente morta un ragazzo non sa che farsene, dice Huck e forse ha ragione. Ma per la mia generazione, e quella di mio padre, e quella di mio nonno - e più indietro non vado - il passato non era un tempo che svaniva insieme ai foglietti del calendario. Certi morti non erano mai morti. Fossero gli eroi greci o quelli del Risorgimento o Che Guevara, fosse Mozart o John Coltrane o Luigi Tenco, i grandi continuavano a vivere nell'immaginazione e nella riconoscenza dei ragazzi. Una catena d'acciaio o una ghirlanda di fiori univa il meglio al meglio, la bellezza alla speranza, la forza alla fiducia. Leggevo Dostoevskij e Tolstoj come se fossero dei fratelli maggiori, non li collocavo nel regno cupo dei morti, le loro parole erano vive, non sussurrate da un tempo lontanissimo fino a perdersi nell'incomprensibilità. E i quadri di Bellini e quelli di Morandi entravano a far parte dello stesso museo interiore, ogni giorno una nuova opera si sistemava su una parete vuota: e le pareti erano infinite, come le meraviglie del passato.
Oggi i ragazzi non si voltano più indietro, gli prende subito la tristezza perché alle spalle avvertono solo un cimitero degli elefanti. La vita è adesso, qui e ora, e poi di nuovo qui e ora, e quello che è stato è stato, e tutte le chiacchiere dei vecchi sono fumo nel vento. Il presente si nutre di se stesso, digerisce se stesso e va avanti. L'arte, il pensiero, la letteratura dei secoli andati è lenta, è puro impedimento vitale, ruminamento in epoca di fast food. Naturalmente anche la politica esce con le ossa rotte dalla fabbrica delle nuove produzioni mentali e sentimentali: anche la politica è fumo nel vento. Questa è la stagione del desiderio, dell'onnipotenza tecnologica, dei corpi che vanno più veloci del pensiero, è la stagione del disprezzo verso ogni forma di misura, di armonia, di compostezza classica, di ragionamento lento e articolato. Sillogismi, rime, consonanze, prospettive, equilibri, riflessioni sulla miseria e la grandezza dell'uomo: via, giù tra le macchine da cucire e il cinema muto, tra i libri dei poeti e i fiori secchi. La cesura è netta, un taglio secco, del passato non si recupera quasi nulla, la cultura umanista finirà tutta quanta in una bella mostra a Roma o a Firenze, e ci sarà la fila per ammirare il cadavere mummificato: ma i ragazzi stanno tutti altrove, davanti a qualche schermo acceso, su qualche aereo che vola sul mondo, in un futuro che allegramente, superbamente, se ne frega di ciò che è stato e che non sarà mai più.
Non è detto che questo dichiarato disinteresse per la tradizione sia una pura sciagura. Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. I nostri ragazzi leggono altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini o Bob Dylan. Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l'urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.
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