SPECCHIO, SPECCHIO DELLE MIE BRAME
C’era una volta, tanto ma tanto tempo fa, un re che non è entrato nei libri di storia, solo perché il suo regno (chiamato il Reame di Porcellengo) era grande quanto un fazzoletto di terra: un centinaio di ettari in tutto. Eppure questo re, che era il Re di Golo, ebbe una vita avventurosa e piena di sorprese, che vale la pena raccontare.
Lui non passava il suo tempo a cacciare, come faceva il re francese Carlo, detto Magno perché prima uccideva cervi e caprioli e poi se li mangiava. Non andava neanche dietro alle sottane delle regine, come faceva il re inglese Enrico, che ne sposava una al mese e a quella vecchia faceva tagliar la testa. Non era neanche come Ivan, il terribile re della Russia, che mandava in Siberia tutti i comunisti, o qualcosa del genere. No, il Re di Golo era un gran lavoratore e gli piaceva un sacco arare i campi, seminare, tagliare il foraggio e cose simili.
Lo si vedeva all’alba uscire dal suo castello e dirigersi in campagna, vestito sempre allo stesso modo: un paio di braghette da cui uscivano due gambe sottili e senza pelo, una canottiera gialla da cui uscivano due braccia lunghe e magre; in testa aveva un ciuffo di capelli che stava sempre in piedi e sul naso qualche lentiggine, che gli dava un’aria da birbone. Quando il prete del paese, don Andrea, suonava la campana del mattutino, lui era già al lavoro da tre quarti d’ora. Con quanta passione rigirava le zolle nei campi! Con quanta frenesia scavava fossi per convogliare le acque nei suoi terreni! Perché è vero che nelle vicinanze scorreva un river, un fiume, per chi non sa l’inglese, ma passava tutto sulle terre del marchese Marchetto, con cui non andava per niente d’accordo (il marchese, infatti, pensava solo a spassarsela in compagnia di donne di dubbia fama). Lui, invece, il Re di Golo, vangava, zappava, potava, estirpava da mattina a sera. Era affezionato, in particolare, a un suo campo seminato a erba cipollina, che gli piaceva tantissimo, tanto che la metteva non solo nell’insalata, nel risotto e nella carne in umido, ma persino nei dolci e nel caffè. Ma, ad essere sinceri, gli piaceva più di tutto spargere il letame sui suoi campi, vedere le piante che ne assorbivano i succhi e crescevano, crescevano, che parevano ringraziarlo per tanta abbondanza; sollevava col tridente quintali di letame e lo spargeva tutto intorno, usava un’autobotte a manovella per irrorare ogni centimetro quadrato del suo regno di un liquame, che lui chiamava “oro marrone” e il cui solo pensiero gli dava un’incredibile felicità.
Purtroppo, anche nella vita di questo Re c’era un problema. Lui, infatti, aveva uno specchio magico, che gli era stato donato dalla più bella del regno, una certa Nicole, dopo quell’episodio increscioso che qui siamo costretti a svelare: Nicole era una fanciulla davvero molto bella, coi capelli lunghi e ricci, piccolina ma già formosa, sempre giuliva e allegra, cosicché tutti i giovanotti dei dintorni le facevano la corte. Ma sapete com’è; le donne si vanno sempre a innamorare di chi non le merita affatto e Nicole, per restare nella norma, s’era innamorata del Re di Golo. Il quale, come avete già capito, aveva altro per la testa. Inutilmente lei gli faceva gli occhi dolci, gli sussurrava parole di miele, si gettava ai suoi piedi e persino nella merda sperando in una reazione diversa da quello che si era abituata ad ascoltare: «Va’ via, che non vali un fico». Così, umiliata fino in fondo, Nicole decise di rivolgersi a una vecchia strega, diversa perfino nel nome (si chiamava Zoanna), la quale le fabbricò questo specchio, lo diede alla ragazza e le disse: «Dai questo specchio al tuo cicisbeo e digli che gli può chiedere qualunque cosa e che lo specchio risponderà, dicendo solo la verità. Solo tu ed io sappiamo che è vero l’esatto opposto e che lo specchio dice solo menzogne. Vedrai che il tuo re diventerà pazzo!». «E ben gli sta!», aggiunse Nicole.
Fu così che alla sera, al calar del sole, quando il re andava a letto, prima di dire le preghiere della notte, si rivolgeva allo specchio magico, dicendo:
Specchio, specchio delle mie brame,
qual è il regno più ricco di letame?
E lo specchio stregato rispondeva:
Mio caro re o camerlengo,
non è certo quello di Porcellengo!
Il Re di Golo, credendo che lo specchio dicesse solo la verità, s’infuriava talmente, che molte volte andava a letto senza dir le sue preghiere, ma poi si svegliava nel cuore della notte, s’inginocchiava davanti al crocifisso e chiedeva perdono a Gesù.
Inutilmente il re si dava da fare per non sentire quella risposta che lo angustiava; inutilmente andava dai maiali, dicendo loro: «Bestiacce, fate più cacca!». Inutilmente emanò un editto e mandò Marcon, il suo ciambellano, a gridarlo per il paese: aveva dimenticato che il suo ciambellano era muto (e anche un po’ orbo, dato che portava un enorme ciuffo di capelli davanti l’occhio sinistro). Allora inviò un suo schiavo nero di origine francese (un certo Jean Brezis) a leggerlo in piazza ad alta voce. L’editto diceva così:
Il Re di Golo ordina che tutta la pipì e la cacca che i sudditi faranno,
deve essere raccolta in appositi vasi e sparsa nei campi.
Verrà tagliata la testa a chi non ubbidirà a quest’ordine.
La testa non venne tagliata a nessuno, perché non ci fu anima viva che non cacasse e non desse ai campi ciò che aveva prodotto. Eppure, alla sera, era sempre la stessa litania; il re chiedeva:
Specchio, specchio delle mie brame,
qual è il regno più ricco di letame?
E lo specchio stregato rispondeva:
Mio caro re o camerlengo,
non è certo quello di Porcellengo!
Inutilmente il re obbligò i suoi sudditi a mangiare soprattutto fagioli e verze, sperando in una diarrea collettiva. Inutilmente nominò un suo erudito, di nome Alessandro, ma il cui cognome non diciamo, ministro della cacca, con il compito di passare di casa in casa per controllare che qualcuno non facesse il furbo e tenesse qualcosa per sé, magari per concimare i gerani.
Il dialogo osceno si ripeteva sera dopo sera:
Specchio, specchio delle mie brame,
qual è il regno più ricco di letame?
E lo specchio:
Mio caro re o camerlengo,
non è certo quello di Porcellengo!
Col passar del tempo la gente cominciò a stancarsi: il re che dava segno di squilibrio, il ministro della cacca che controllava tutti i vasi da notte e la puzza, la puzza orribile che aveva invaso il regno, perché di letame vario se ne produceva tanto; anche gli stitici s’erano messi al lavoro con impegno!
A prendere in mano la situazione furono due persone istruite, le sole a parte il ministro della cacca; don Andrea che suonava la campana e Veronica, la maestra di fisarmonica. Si riunirono prima tra loro, poi con i più fidati del regno, infine con tutti quanti; decisero che non si poteva andare avanti così, si presentarono in massa al castello del re prima dell’alba e gli dissero:
«O Re di Golo, noi facciamo tutta la cacca che ci chiedete e anche di più, ma lei non è il miglior concimatore del mondo. Abbiamo deciso di scioperare, di non fare più i nostri bisogni e anche di occultare la merda dei maiali. Lei se ne deve andare. Vada a farsi un’istruzione da qualche parte, in Francia, in Polonia o dove crede, insomma dove sanno come si concimano i campi. Solo allora potrà tornare qui e noi l’accoglieremo a…. natiche aperte».
Il Re di Golo capì che i suoi sudditi facevano sul serio e dopo averci pensato tutta una notte, accettò l’invito ad andare a istruirsi. La mattina, mise in un fagottino le cose a cui teneva di più, una zolla di terra ben concimata e un po’ d’erba cipollina. Voleva portare con sé il suo ciambellano, ma poi si ricordò che era muto e anche un po’ orbo e pensò che non poteva essergli di aiuto; così partì da solo. Non era molto lontano che sentì don Andrea suonare la campana e Veronica cantare sulla fisarmonica. Gli venne da piangere, ma si fece coraggio.
Cammina, cammina, incontrò tre fanciulle che facevano il bagno in un ruscello; siccome erano nude, tossì forte per farsi sentire, ma quelle, invece di nascondersi, uscirono fuori dall’acqua ridendo e saltellando e gli corsero incontro. Il re divenne tutto rosso, ma trovò comunque la forza di domandare:
«Belle fanciulle dalla pelle bianca, ditemi chi siete, per favore».
La più piccola delle tre rispose:
«Questa è Bianchin, questa è Dal Bianco e io, che sono la più bella, sono La Bella».
«Che strani nomi avete! Ma che paese è mai questo?».
«È il paese del Bianchetto», rispose Dal Bianco.
«No, è il paese dei Bianchini», corresse Bianchin.
«Ma che dite», s’intromise La Bella, «questo è il paese dei Bellocci».
«Sì», fecero le altre due in coro, «vorrai dire dei Così Così piuttosto!».
E le tre grazie cominciarono a prendersi per i capelli, finendo a ruzzoloni di nuovo nel ruscello.
Il Re di Golo pensò bene di allontanarsi da quelle tre pazze scatenate e mentre se ne andava, si disse tra sé e sé: “Che gente strana c’è al di là di Porcellengo!”.
Cammina, cammina, arrivò al margine di una foresta fitta di alberi e di rovi; si fece il segno della croce e s’inoltrò, ma fatti pochi passi, gli venne sbarrata la strada da tre loschi figuri, che non promettevano niente di buono: il primo non era neanche brutto, ma era gobbo da far paura; il secondo era seminudo, aveva solo un perizoma fatto di pelle di agnello (anzi, di agnoletto, talmente era piccolo) che gli copriva le vergogne, lasciando scoperta la pelle di tutto il resto del corpo, scura come quella di un saraceno; il terzo era grande e grosso come una montagna, ma l’espressione del volto lasciava trasparire senza ombra di dubbio, che era uno della stirpe dei lazzaroni, che a quel tempo infestavano le boscaglie.
«Alto là, brutta canaglia!», disse il più grosso. «Dove credi di andare?»
«Al di là di questo bosco», rispose un po’ tremando il Re di Golo.
«Ah ah ah!», sghignazzarono i tre lazzaroni, «e tu credi di poterlo fare senza alcun pegno? Noi siamo i padroni della foresta e il nostro motto è “O la borsa o la vita”».
«Ebbene, se è solo questo che mi impedisce di passare, eccovi la mia borsa e tutto ciò che contiene» e così dicendo, il re lanciò al gobbo, che era il più vicino a lui, il suo fagotto.
«Ehi, ma qui dentro», disse costui, aprendo l’involto «c’è solo merda secca e un po’ d’erba ammuffita».
«Ehi Zago», gridò allora quello vestito di pelle d’agnoletto, guardando in alto, «butta giù lo spago, che l’impicchiamo!».
Nascosto sopra un albero, c’era il vero capo dei lazzaroni, quello che escogitava le malefatte e le faceva eseguire agli ingenui suoi compari. Veloce come il fulmine saltò giù dalla pianta, rimbalzando sul terreno come se fosse una molla; aveva la testa rasata, con solo un ciuffo in cima, che gli dava un’aria da pirata.
«Fermi là, marmaglia», disse, «decido io chi si deve impiccare e chi no!».
E dopo aver guardato nel sacchetto, aggiunse:
«Balordi, non vedete che questa, anche se ammuffita, è erba cipollina? Puzza un po’ di sterco, questo è vero, ma con una bella lavata si può ancora mangiare. E voi sapete che io ne vado pazzo!».
Quindi rivolto al re:
«Vai pure, con quest’erba cipollina ti sei pagato l’attraversamento e tienti pur la merda, che solo i bifolchi considerano necessaria».
Anche se profondamente indignato per quell’ingiuria appena ricevuta, il Re di Golo non se lo fece ripetere due volte di andarsene e sgattaiolò via in un baleno; aveva già attraversato mezza foresta, che ancora sentiva le sberle che Zago dava ai suoi tre compagni, accompagnate da offese tremende:
«Gobbo della malora, vien qua che ti raddrizzo! E tu, seminudo, ti faccio nero, tanto sei già scuro di tuo! Tu dove scappi, lazzaron perfido e ignorante? Grande e grosso e non riconosci un tesoro, neanche se ti ci siedi sopra».
“Che gente strana, c’è al di là di Porcellengo”, pensò il re; il quale, cammina, cammina, uscì finalmente dalla foresta e si ritrovò sulla riva di una laghetto, dove sorgeva una capanna, chiaramente abitata da qualcuno, visto che da un buco nel tetto usciva del fumo.
«Ehi, buona gente», disse ad alta voce il re, «c’è qualcuno che può dare ospitalità a un povero viandante, visto che sta calando la sera?».
Dalla capanna uscirono tre esseri, un maschio e due femmine, dalle strane sembianze; le due femmine erano carine, questo è vero, ma anche loro avevano, come il maschio, gli occhi stretti e lunghi e il re, che non aveva mai visto in vita sua un orientale, ne rimase un poco impressionato.
«Jasmine», disse una delle femmine, il capo della combriccola, come appariva dai gesti.
«Ashlyn», disse la seconda, con un inchino perfetto.
«Chen», borbottò il maschio, che, anche se era l’unico coi baffi, era sicuramente l’ultima ruota del carro.
Avendo capito che quelli erano i loro nomi, il re si presentò a sua volta:
«Io sono il Re di Golo e sto facendo un viaggio d’istruzione. Chi è il padrone di questa casupola? Mi può ospitare per una notte?».
«Il padrone non c’è», disse Jasmine, «ma arriverà tra poco e sarà contento di ospitarla».
«Intanto si sieda qui», aggiunse Ashlyn con un sorriso, «le serviremo qualcosa con cui rinfrancarsi», e rivolta al maschio quasi gridò:
«C’è Chen? Se c’è c’è, se non c’è ci salà», che in cinese voleva dire: «Chen, vecchio caprone, fai qualcosa, che da quando sei qui non hai fatto niente».
Il re aveva appena incominciato a mandar giù ciò che i tre gli avevano servito, quando arrivò fischiando un ometto, tondo e rubicondo, con l’aria più gioviale di questo mondo.
«Oh che bellezza, abbiamo ospiti stasera! Con chi ho l’onore?», chiese rivolto al re. Costui si presentò e l’ometto lo interruppe sull’istante:
«Un re? Ma che fortuna! Io sono Pinarello, l’inventore del pennarello, ed è una vita che aspetto di incontrare uno con un sacco di grana, che mi finanzi la mia invenzione!».
«Il pennarello? Ma che cos’è?», domandò il re.
E Pinarello, invece di rispondere, gli mostrò direttamente la funzione della sua invenzione. Infatti, disse a Chen di spogliarsi, costui ubbidì come un cane bastonato, e l’ometto scrisse su tutto il corpo del povero cinese, una serie di ideogrammi con una strana matita verde; alla fine, il cinese era tutto verde, come un alieno.
«Vede?», spiegò Pinarello, «col mio pennarello si scrive e non si cancella più» e per provarlo, ordinò a Jasmine di gettare un secchio d’acqua bollente su Chen, che si ritrovò così tutto scottato, ma ancora tutto scritto.
«E sa che cosa ho scritto sulla pelle di questo fannullone?», continuò l’ometto. «Chen che sei pigro e irritante come un mazzo di ortiche nelle chiappe! Sono tre anni che ti insegno il presente indicativo dei verbi essere e avere e tu ancora mi dici “Io ho Chen”, invece di “Io sono Chen”!».
Il Re di Golo, che per quanto sempliciotto non era stupido, aveva già capito che Pinarello era un gran chiacchierone; ma mai avrebbe immaginato che l’ometto l’avrebbe tenuto sveglio tutta la notte, per raccontargli di quanto fosse dolce Jasmine, quanto brava Ashlyn, che in pochi mesi aveva imparato la sua lingua meglio dei lazzaroni che vivevano nella foresta, e quanto pigri e indolenti sono i cinesi come Chen, che vengono da noi e non parlano, dormono anche con gli occhi aperti, ci rubano il lavoro, sono mafiosi e altri pregiudizi del genere.
Al mattino, senza aver chiuso occhio per tutta la notte, il re a fatica riuscì ad andarsene, non senza aver promesso che avrebbe aiutato Pinarello a fabbricare il pennarello, non appena fosse tornato nel suo regno.
Cammina, cammina, il nostro eroe arrivò a un grande fiume, non il river del marchese Marchetto, ma un altro ancora più largo e impetuoso, che sembrava il Mississippi, tanto che il re non sapeva come guadarlo. Ma ecco, da dietro un cespuglio apparve come per magia una fanciulla che nessuno aveva mai visto di più bella e tutta ingioiellata.
Persino il nostro re, generalmente insensibile al fascino femminile, ne fu turbato; perciò le chiese con fare languido, anche se un poco contadinesco:
«Chi sei, splendida creatura, che vaghi in luoghi sì selvaggi e ignoti e non mostri di temere alcuno, malgrado tutte le gioie di cui sei adorna?»
«Sono una fata e paura non ho, perché son nata per spargere attorno a me bellezza e gratitudine, come questi gioielli di cui sono adorna. Mi chiamo Sofia e vengo dall’Australia.»
«Ah, ho sentito parlare dell’Austria», disse il re e la fata, che appunto era buona oltre che bella, finse di non accorgersi della bestialità. Anzi, aggiunse:
«So che vuoi andare al di là di questo fiume ed io ti posso aiutare. Io lo farò, ma solo se mi prometti di fare pace, al tuo ritorno a casa, con il marchese Marchetto, che è tanto bello ed ha l’unico difetto di non aver voglia di fare niente».
«Per la tua bellezza e la tua gentilezza, te lo prometto, mia cara fata», rispose il Re di Golo, senza chiedersi perché Sofia sapesse di lui e del marchese e perché ci tenesse tanto alla serenità di Marchetto.
Ciò detto, la fata avvolse nei suoi capelli biondi il nostro eroe, lo sollevò in volo, gli fece superare il largo fiume e lo depose, mezzo stordito, sull’altra riva. Quando si riebbe, il Re di Golo non vide più la fata e si disse tra sé e sé: “Che gente strana, c’è al di là di Porcellengo!”. Quindi riprese il cammino.
Cammina, cammina, il Re di Golo arrivò ai piedi di una montagna, dove si apriva una caverna tenebrosa. “Mi riposerò un poco qui”, pensò, “visto che stanotte non ho dormito un secondo”.
Ma fece appena un passo dentro la grotta, che sentì qualcuno urlare: gli aveva appena pestato i piedi o qualcos’altro.
«Chi è il fellone che osa disturbarmi?», disse una voce.
«Chi ha la sfacciataggine di mettere i suoi piedi sulle mie parti basse?», aggiunse un’altra voce.
«Maritino mio caro, che ti è successo?», si udì una terza voce, decisamente femminile.
«Boia mondo, marito da strapazzo, che hai da urlare come un matto?», s’intromise un’altra voce, femminile anch’essa, ma quasi maschia, forse perché arrabbiata.
Chi scusandosi, chi maledicendo, chi tutta moine, chi profondamente seccata, i nuovi quattro protagonisti della nostra storia si presentarono al nostro re.
«Io sono l’eremita Giovanni; vivo in questa grotta da alcuni anni e non esco mai, infatti son biondo e pallido, perché così devono essere gli eremiti che si dedicano alla meditazione».
«Io sono Elisa, la di lui moglie che gli vuole tanto bene, perché a forza di meditare, non si ricorda mai di ordinarmi dei lavori da fare».
«Io sono Stefano e sono uno scienziato, costretto a sfuggire il mondo, perché un giorno, durante un esperimento, ho fatto esplodere la scuola in cui insegnavo e i gas che ho usato hanno trasformato il preside in un Grande Puffo».
«E io sono la moglie di questo babbeo, che si crede un grand’uomo, solo perché ha letto due libri in vita sua».
«Bene detto», si permise di osservare il re.
«Col cavolo!», aggiunse l’ultima che aveva parlato. «Benedetta, caso mai, visto che sono una femmina e non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno… e… ahimè, io svengo, soccorretemi vi prego, mi sento mancare…. Ma forse è un sogno! Aaaaah!» e quella che aveva detto di chiamarsi Benedetta, cadde per terra.
«Che hai, amore mio?», accorse trepidante il maritino, anche lui biondo e pallido per la lunga permanenza nella grotta. «Che ti succede? Che ti prende? Perché mi fai tremar così, che il cuor mi salta in gola?».
«Se permette», disse il re, «ho io qualcosa che pon rimedio agli svenimenti delle femmine» e, avutone il consenso del marito scienziato, fece annusare all’infelice la sua zolla di sterco che gli era tanto cara.
«Ah! Dolce risveglio!», disse colei, riaprendo gli occhi, che le caddero sul soccorritore. «Ma allora tutto questo è vero? Sei proprio tu! Un uomo tale e quale sempre sognai! Oh, amore mio, portami con te, liberami da questo marito, che sa solo succhiare caramelle!».
«Io invece resterò sempre con te, marito mio adorato!», pensò bene di precisare Elisa, anche lei bionda e pallida, per gli stessi motivi di cui sopra.
«Queste son donne!», esclamò Giovanni l’eremita, «Quelle che sanno qual è la loro posizione, chi comanda in casa e chi deve ubbidire, chi porta i pantaloni e chi il reggiseno e…».
«Ma va a farti friggere!», esplose Benedetta e, chissà perché, invece di darla all’eremita, diede una botta in testa al legittimo consorte.
In tutto quel trambusto, il nostro re aveva avuto il tempo di pensare a come salvarsi da quella situazione. Perciò, appena ci fu un po’ di calma, osò dir la sua:
«Gentile Benedetta, cari signori, amabile Elisa; io sono il Re di Golo», - la precisazione fu accolta con un sospiro dalla moglie dello scienziato - «ma sono momentaneamente “abdicato”, perché sto cercando qualcuno che mi istruisca, su come migliorare la vita nel mio regno. Quando ciò sarà avvenuto, prometto di ripassar di qui e, se Benedetta vorrà ancor farsi mia sposa, la condurrò meco fino al mio Regno».
«Ehilà, bimbim! Mi credi scema?», lo interruppe la donzella. «Credi che non sappia come siete fatti voi uomini? Io ho deciso che ti voglio sposare, perché uno bello come te non l’ho mai veduto. Perciò, appena vuoi ce ne andiamo da qui e lascio mio marito a fare esperimenti su una capra, se è capace di trasformarla in femmina. Quanto alla tua istruzione, ci penso io. Io so dove puoi imparare tutto ciò che ti serve; ti ci accompagno subito. Dai, datti una mossa!».
Ci credereste? Trascinato per un braccio, il Re di Golo fece fatica a tenere il passo della sua innamorata; ma bene o male camminò. E cammina, cammina, i due arrivarono dove voleva Benedetta.
Era una scuola, dove insegnava il professor Stecchino, l’insegnante più famoso di tutta Europa; intelligente, bello, atletico e simpatico, si faceva chiamare “Sua Altezza, Sua Larghezza e Sua Profondità”, ma si rivolgeva al Re di Golo con l’appellativo doveroso di “Sua Maestà”.
Il professor Stecchino insegnò al Re di Golo tutto quanto poteva entrare nella testa di “Sua Maestà”: non tanto a dire il vero, ma insomma, qualche volta ci si può accontentare. E poi, ciò che fece risolvere la situazione, fu la scoperta, del tutto casuale, della storia dello specchio magico.
Il professor Stecchino, dall’alto della sua saggezza, capì in quattro e quattr’otto la verità; la spiegò al re, gli chiese se aveva rifiutato qualche donzella («La più bella del reame», rispose il re, aggiungendo dopo un’occhiata di Benedetta, «dopo di te, s’intende»), gli domandò se nel suo regno vivesse qualche strega («La più perfida di tutte», spiegò il re, «la malvagia Zoanna») e infine gli raccomandò di
1- iscriversi a una scuola di agraria
2- tornare al suo Regno con la bella Benedetta
3- chiudere in un convento Nicole l’ingannatrice
4- ardere sul rogo la strega Zoanna
5- lasciare che i suoi sudditi cacassero in pace, se volevano, o ne facessero a meno, se preferivano.
Il Re di Golo promise di fare tutto ciò che il professor Stecchino gli aveva consigliato. Infatti, quando tornò a Porcellengo, licenziò il ministro della cacca e liberò il suo servo nero; cercò di far parlare il ciambellano, che però rimase muto, e cercò anche di fargli tagliare il ciuffo, ma lui rifiutò di farlo; cercò di far pace col marchese Marchetto, ma questi si tenne tutto il suo river e anche le sue donne di dubbia fama; quindi sposò la furba Benedetta. Don Andrea suonò la campana, Veronica strimpellò una canzoncina sulla fisarmonica e il re e la regina vissero felici e contenti per molti anni ancora.
Così come io auguro a chi questa sera mi ha ascoltato.
Il Re di Golo al lavoro
(illustrazione dello stesso Re di Golo)